Corrado Alvaro diceva che quello dei liberali non è un partito, ma «l’atteggiamento di chi non ha gravi ragioni di sofferenza». E aveva ragione. L’avvocato in fervore che oggi diremmo garantista, il gran medico che affettava compostezza umanitaria, l’industriale coltivato, insomma i grandi borghesi che la sera leggevano John Stuart Mill davanti al camino nella sala fasciata di cuoio, non erano poi diversi rispetto all’intellettuale settecentesco che meditava sulle libertà denegate mentre il servo gli porgeva il distillato prediletto.
Un secolo e mezzo dopo il liberalismo continentale continuava a essere una specie di lusso un po’ eccentrico, consentito perché dopotutto innocuo e perché non aveva ambizione di uscire da quelle stanze riparate. I destinatari dell’istanza liberale erano ancora sino al secondo dopoguerra, ed esattamente come duecento anni prima, appartenenti a un unico grande gruppo derelitto, una massa uniformata a una subordinazione che trovava revoca eccezionale in pochi esempi di affrancamento borghese generatore di profitto. Era sempre e soltanto il latifondo, o il grande possedimento industriale, il terreno inseminato con qualche indizio di prospettiva liberale.
È così, oggi? Non è così. Oggi non sono più quelli i destinatari dell’istanza liberale, e non ne sono più quelli i portatori. Oggi la lunga teoria di normative e prassi illiberali, e la complessiva arretratezza italiana nell’apprestare soluzioni contrarie, affligge porzioni molto diverse della società: il produttore inibito non si dice a prosperare, ma persino a sopravvivere in un sistema predatorio e defatigante, obbligato a guadagnare sul filo di una legalità che, se compiutamente osservata, è costituzionalmente rivolta a estrometterlo dal mercato, non ha ereditato il suo ruolo da una tradizione che lo tiene in basso, e semmai, e ben altrimenti, a quel ruolo è stato degradato da un sistema nuovo e diverso.
L’oppressione fiscale e burocratica, bilanciata dalla tolleranza arbitraria e intermittente dell’evasione, si risolve in un meccanismo afflittivo più grave rispetto all’ingiustizia della decima: perché questa era dopotutto un riflesso, uno dei tanti, di un regime di sopraffazione arcaica senza troppa pretesa di mostrarsi giusta, mentre quello si scagiona nella scriminante redistributiva e anzi rivendica la legittimità dell’intervento etico a correzione della turbativa individualista.
Questo avvicendamento nei ranghi delle vittime della soluzione illiberale non è senza cause: e la prima è che a sostituire quell’antica classe, che coltivava in salotto l’hobby della libertà sulla scorta di quella che le era garantita dal denaro e dal censo, è giunta una schiatta che non aveva neppure quello stimolo solitario all’alternativa liberale e s’è messa a capitanare un assetto oligopolistico, anticoncorrenziale e sostanzialmente parassitario che non pativa nemmeno ideologicamente, diciamo così nemmeno sentimentalmente, l’andazzo di involuzione illiberale, e piuttosto vi si insinuava in posizione di vantaggio sostanzialmente castale in pregiudizio dell’iniziativa privata non garantita.
Il movimento – per intendersi – “non di sinistra”, che ormai da tre decenni compete per il governo del Paese, non ha mai avuto in programma di subordinarsi all’esigenza liberale, e il claim tralatizio cui si riducevano i suoi slogan era anche meno fattivo ed effettivo di un puro atteggiamento: con la differenza fondamentale che il proposito riformatore rimuginato dal borghese illuminato di ottant’anni fa non poteva contare sulle capacità attuative di cui invece disponevano le ampie schiere parlamentari e di governo accreditate nell’indiscutibile epopea del centrodestra. E questa differenza non solo numerica ma di stato, di titolo persino formale a interpretare e imporre rivolgimenti liberali, denuncia una responsabilità anche più grave rispetto a quella di coloro che li avversano apertamente e per principio. È la responsabilità di chi rinuncia perché non vuole, imparagonabile a quella di chi non può.