Sempre menoIl primo passo per contrastare l’inevitabile calo demografico globale è accettarlo

Entro la fine del secolo la popolazione mondiale inizierà a diminuire, con tutto quello che può significare in termini di trasformazione della società. Ma non è per forza un dato negativo: per molti demografi la riduzione della popolazione non è un nemico da combattere ma qualcosa di cui tener conto per ricalibrare le decisioni politiche del presente e del futuro

Unsplash

La popolazione mondiale è destinata a diminuire. Già molti Paesi del mondo occidentale stanno vivendo una fase di stagnazione demografica segnata da un calo drastico nella fertilità, e la fase successiva sarà una regressione del numero di abitanti.

Tutte le stime e le previsioni dicono che entro la fine del secolo – ma più probabilmente già nel giro di pochi decenni – la popolazione mondiale inizierà a ridursi anno dopo anno.

È un cambio di prospettiva radicale rispetto alle nostre abitudini. La demografia globale ha avuto un’espansione costante durante tutto il Novecento: se all’inizio del secolo scorso sulla Terra c’erano 1,6 miliardi di abitanti, nel 2000 erano 6,1.

Le cause demografiche di questa transizione da una fase di crescita a una di stagnazione e poi di diminuzione sono una riduzione del tasso di mortalità – più o meno ovunque, con differenze tra una zona e l’altra –, quindi un aumento della durata media della vita, e un saldo positivo nel bilancio tra nascite e decessi.

«Nel cosiddetto population boom del Novecento, il crollo della mortalità è stato affiancato da una parallela riduzione della fecondità», dice a Linkiesta Alessandro Rosina, demografo e docente di Demografia e statistica alla Cattolica di Milano. A questo però si è aggiunto nel corso del Novecento un altro fatto chiave: «Di solito l’equilibrio demografico si raggiunge quando la fecondità è intorno ai due figli per donna. Oggi in buona parte dell’Europa e del mondo occidentale siamo sotto questa soglia. Il mondo è passato da una fecondità superiore ai 5 figli per donna, ai 2,5 di oggi, e nel corso di questo secolo andrà verso i 2».

Per circa un terzo della popolazione mondiale, però, queste dinamiche ancora non valgono, o non saranno presenti fino alla fine del secolo. Ad esempio, prima del 2100 la Nigeria potrebbe superare la Cina in termini di popolazione. E in generale l’Africa subsahariana sarà il motore della crescita demografica del mondo fino a che la regressione nelle altre zone non sarà troppo accentuata.

La conseguenza è una distribuzione diseguale della popolazione. «Nel corso di questo secolo la popolazione mondiale continuerà a crescere, fino a 10 miliardi secondo alcune stime. Con andamenti differenziati. Nel caso italiano la fertilità è talmente bassa (a 1,24 figli per donna, il dato più recente) che neanche l’immigrazione riesce a bilanciare la riduzione di popolazione. Anzi, potremmo essere il primo Paese in cui gli over-50 supereranno gli under-50», dice Rosina.

Un cambiamento così netto nella composizione della popolazione comporterebbe anche una trasformazione fisica dei luoghi, delle città, dei quartieri che abitiamo. Il New York Times lo ha raccontato in un articolo pubblicato pochi giorni fa, in cui unisce reportage da diverse aree del mondo. Dipinge scenari piuttosto malinconici, in cui le feste di compleanno dei bambini diventano eventi più rari dei funerali, gli asili nido cominciano a trasformarsi in case di cura, le urla dei ragazzi che giocano in strada sono sostituite dal lento incedere di un paio di pensionati.

C’è anche un passaggio sull’Italia, a Capracotta, piccolo centro del Molise: «Un cartello in lettere rosse su un edificio in pietra del XVIII secolo che si affaccia sugli Appennini recita “Casa della scuola materna”, ma oggi l’edificio è una casa di cura», scrive il quotidiano statunitense.

E ancora: «La popolazione di Capracotta è drammaticamente invecchiata, si è ridotta da circa 5.000 persone a 800. Le falegnamerie della città hanno chiuso. Gli organizzatori di un torneo di calcio hanno avuto difficoltà a formare anche una sola squadra. A circa mezz’ora di distanza, nel comune di Agnone, il reparto maternità ha chiuso un decennio fa perché aveva meno di 500 nascite l’anno, il minimo nazionale per restare aperto. Quest’anno ad Agnone sono nati sei bambini».

È lo stesso anche in altre aree del mondo: la popolazione della Cina dovrebbe ridursi da 1,41 miliardi di oggi a circa 730 milioni nel 2100. Uno stravolgimento demografico che in parte si può già intravedere: «Nel nord-est della Cina la popolazione è diminuita dell’1,2% nell’ultimo decennio, secondo i dati del censimento. Nel 2016, la provincia di Heilongjiang è diventata la prima nel Paese a ritrovarsi con il sistema pensionistico a corto di liquidità. A Hegang, una “città fantasma” di provincia che ha perso quasi il 10 per cento della sua popolazione dal 2010, le case costano così poco che le persone le paragonano ai cavoli», scrive il Neww York Times.

Alcuni demografi non leggono il calo demografico come un elemento solamente negativo. O comunque non come un dato che di per sé può contenere una valutazione qualitativa così netta, senza sfumature.

«Per tutta la storia dell’umanità un bambino su quattro non arrivava al primo compleanno, pochissimi arrivavano all’età per diventare genitori. Quindi la fecondità era compensata dall’altissima mortalità: insomma, a dirla tutta l’anomalia storica è il boom demografico del Novecento. È per questo che il dato sulla quantità di popolazione da solo non permette di dare un giudizio positivo o negativo», spiega Rosina.

Ci sarebbero anche conseguenze di breve-medio periodo positive da considerare: un pianeta con meno persone consumerebbe meno risorse naturali, rallenterebbe l’impatto distruttivo del cambiamento climatico, ad esempio.

Più in generale, la questione centrale non è il numero di abitanti del pianeta. Nulla ci dice che 4 miliardi sia meglio o peggio dei 7,8 attuali o dei 9 previsti per il 2050. Sono importanti le condizioni e le modalità con cui avvengono le transizioni demografiche. Certo, se sono troppo violente diventano difficili da controllare.

Prendiamo il caso italiano: se il dato della fertilità dovesse rimanere così basso per molti anni si creerebbe un divario enorme tra la popolazione anziana e quella giovane, quindi anche squilibri in fatto di capacità produttiva del Paese: diventerebbe impossibile per lo Stato fornire servizi di welfare, assistenza, salute pubblica, pensioni e previdenza sociale.

Questo spiegherebbe perché il dato demografico può essere letto anche come una conseguenza, non solo come causa di problemi e altri cambiamenti. Lo ha spiega a Linkiesta Stuart Gietel-Basten, direttore del Center for Aging Science all’Università di Hong Kong: «Se la popolazione diminuisce in un territorio non è solo per il dato della fertilità o della mortalità. Ma anche perché c’è migrazione, le persone non vivono più bene, vanno via in cerca di altre opportunità economiche: adesso lo vediamo in Italia e in Corea del Sud, ma storicamente ci sono sempre stati flussi del genere che hanno creato zone meno popolose e più anziane».

Negli ultimi giorni la decisione del Partito comunista cinese di permettere alle coppie del Paese di avere fino a tre figli ha aggiunto un tassello a questo dibattito: dopo decenni di politica del figlio unico, Pechino aveva già cambiato rotta nel 2016 concedendo alle coppie di averne due, ma non aveva portato ai risultati sperati. Oggi il governo prova a fare un passo ulteriore nella speranza di invertire la rotta, anche se sembra una strategia politica piuttosto frenetica, impaziente.

Dopotutto il 2016 non è molto lontano nel tempo, e difficilmente il vecchio provvedimento avrebbe potuto cambiare le prospettive demografiche del Paese in pochi anni. In più, la strategia di Pechino sembra comunque insufficiente, o inadeguata, a ribaltare il processo di invecchiamento e spopolamento della Cina.

Stuart Gietel-Basten considera infatti un errore guardare al calo demografico come un nemico da combattere. «La demografia è spesso implacabile: la denatalità passata alimenta quella presente, quindi gli squilibri futuri», dice. Rimanda all’immagine di una valanga, che nasce da una cosa molto piccola e cresce durante il suo percorso. E difficilmente si può arrestare.

Il cambiamento di può richiedere decenni, ma una volta iniziato, il declino, segue un andamento esponenziale: meno nascite, significa avere meno donne in grado di avere figli, quindi meno famiglie – e meno numerose – rispetto alla generazione precedente. E così di generazione in generazione.

«Le contromisure che si prendono di solito – spiega Gietel-Basten – possono essere inutili: molti dei problemi dovuti all’invecchiamento e alla riduzione della popolazione non si risolvono facendo più figli. Si pensi al caso delle pensioni e dei sistemi pensionistici: sta diventando insostenibile, perché le persone vivono di più, assorbono di più l’assistenza dello Stato. Se l’anno prossimo improvvisamente si facessero più figli, questi non saranno nel tessuto produttivo del Paese per un ventennio più o meno. Oggi in Italia molte persone potrebbero voler avere più bambini rispetto alla media di 1,24, ma alla fine il trend dice che ne faranno sempre meno: è un sistema rotto che rende sempre più difficile per i giovani prendere decisioni di questo tipo. E questo vale per tutti i posti in cui il tasso di fertilità è basso».

Il governo italiano sta lavorando a nuove misure volte a sostenere la genitorialità e favorire la natalità. Il consiglio dei ministri ha approvato ieri l’assegno unico per le famiglie che non hanno diritto ad altri contributi. Si tratta per ora solo di un “assegno ponte” di sei mesi, erogato da luglio fino al 31 dicembre. Poi, da gennaio 2022, diventerà permanente e universale. È destinato alle famiglie con figli fino a 18 anni, e va da 167,5 euro per chi ha un solo figlio fino a 653 per chi ne ha tre.

Ci sono infatti anche scelte politiche – consapevoli o inconsapevoli – dietro il cambiamento demografico. È anche un discorso strettamente elettorale: gli anziani al voto diventano sempre più dei giovani, i partiti e le forze politiche hanno buon gioco a rivolgere l’attenzione al segmento di popolazione in crescita. Che oltretutto è anche più facile da raggiungere: rispetto a un bacino elettorale giovane e in costante evoluzione, la popolazione anziana è naturalmente più intelligbile, si sa quali sono i suoi bisogni, le sue tendenze, è una quantità certa.

«La prima cosa da fare – conclude Gietel-Basten – è accettare la diminuzione demografica, non combatterla a tutti i costi. Dopodiché la soluzione, che forse a livello pratico non è ancora stata trovata, a livello teorico consiste nel ripensare la società, guardarla nella sua multidimensionalità: è vero che la popolazione si riduce e invecchia, ma diventa più sana, più istruita, più colta. Quindi il potenziale è lì da qualche parte. Una volta che c’è questa consapevolezza si può aggiustare il tiro su tutte le cose che non vanno, come i sistemi pensionistici, che adesso non sono sostenibili perché non si sono mai adattati alla crescita demografica».