In fatto di serie televisive pochi possono battere la Turchia. Le sue epopee storiche, i racconti dei sultani ottomani, le storie tradizionali riprese e ri-raccontate secondo standard (un filo più) moderni sono un successo globale. “Il secolo magnifico” (Muhteşem Yüzyıl), serie su Solimano il Magnifico, è stata vista da 500 milioni di persone in tutto il mondo.
Nel giro di dieci anni le esportazioni di film e serie televisive sono decollate, con un giro d’affari di 100mila dollari nel 2008 che ha raggiunto, 12 anni dopo, 500 milioni (e nel 2023, secondo le previsioni, arriveranno a un miliardo). I “dizi” (parola turca per indicare i telefilm) costituiscono il 25% degli spettacoli tv importati a livello globale: prima di loro, insomma, ci sono solo gli Stati Uniti.
La formula di questo successo, spiega questo articolo di Nikkei Asia, comprende più elementi. Sono storie che uniscono «uno stile di vita moderno ma che non respingono le tradizioni», dichiara al giornale asiatico Burak Sagyasar, della Tims&B, la società di produzione turca più importante del momento. Ci sono vicende reali, personaggi forti, non manca mai la famiglia e si parla sempre di valori. Il target è la classe media globale, e sono prodotti in grado di soddisfare allo stesso tempo più attese.
Per le donne occidentali ecco le storie di passione vecchia scuola, che ormai latita nelle più recenti produzioni americane. Per gli orientali, invece, funziona la resa di una modernità secolare fondata da valori e principi tradizionali che si scontrano con una società corrotta. In più non ci sono scene di nudo e sono pochissime le parolacce. Perfetti, insomma, per la famiglia.
I titoli più apprezzati vanno da “Calikusu” (2013) , un adattamento letterario della vicenda di un insegnante dell’Anatolia rimasto senza genitori, fino a “Bir Zamanlar Cukurova”, una sorta di Dallas che racconta le traversie di una famiglia del Sud del Paese. “Fazilet Hanim e le sue figlie” ha fatto piangere le donne del Cile e del Perù. “Fatmagul (Il prezzo dell’innocenza)”, mettendo in scena una sotria di violenza e stupro, ha fatto partire il #MeToo in Sudamerica, ha vinto il titolo di miglior serie straniera nel 2019 in Francia e ha già un remake (in Spagna).
Il risultato è un prodotto culturale che mira a unire i valori di una volta a storie contemporanee – alcune che trattano temi presenti, caldi, nel dibattito pubblico. Ed è, soprattutto, un lasciapassare perfetto per il soft power di Ankara, che ne approfitta per imporre alcune sue narrazioni: “Resurrection: Ertugrul” (2014) racconta le vicende del padre di Osman, il fondatore dell’impero ottomano. Così gli ottomani da invasori diventano una potenza giusta e protettiva. Tanto che numerosi spettatori hanno cambiato idea sulla Turchia, perfino in Paesi da sempre ostili come Grecia, Bulgaria e Russia.
In questi Paesi le serie turche arrivano a compensare – sostengono alcuni studiosi – il crollo dei valori tradizionali imposto dalla modernità. Le grandi famiglie, il senso di comunità, l’attaccamento alla terra sono fenomeni che appartengono al passato o, meglio ancora, a una nostalgia fittizia per un’epoca mai vissuta. Opponendosi allo stile americano, propongono un’alternativa (conservatrice? Reazionaria?) che viene seguita con sempre maggiore interesse.
Eppure le contaminazioni sono già avvenute. Netflix ha fiutato l’affare, ha già commissionato alcune hit (come “Fatma” e “50M2”, già disponibili) ed è pronto ad aprire ad altre produzioni. Non tutti sono contenti. Secondo alcuni autori, la “netflificazione” del prodotto porterà a una corruzione del DNA delle dizi, eliminando nel tempo i suoi elementi distintivi.
Sarà così? Forse. Ma è il prezzo, necessario, del vero successo.