Mentre il rapporto della Turchia con il grande vicino russo si fa teso, e la condanna da parte della Lega Araba dell’occupazione turca nei territori situati nella Libia occidentale, in Siria e nel Nord dell’Iraq evoca le ore buie della colonizzazione ottomana, in Medio Oriente si assiste a un indebolimento della volontà egemonica dell’asse Fratellanza-sciiti.
In questo contesto, Erdoğan ha lavorato per rompere il suo isolamento trasformandosi a sua volta in un “imprenditore dell’odio” e alimentando la campagna antifrancese che ha infiammato parte del mondo musulmano in seguito alla ripubblicazione delle vignette del Profeta da parte di “Charlie Hebdo” il 3 settembre e alle dichiarazioni del presidente Macron il 2 ottobre a Les Mureaux contro il “separatismo islamista”, e durante l’omaggio a Samuel Paty il 21 ottobre nel cortile della Sorbona dove il presidente ha dichiarato che la Francia non rinuncerà mai alle vignette.
Questo compito è stato facilitato a Erdoğan dal crollo degli studi islamici in Francia, rafforzato da una casta di alti funzionari convinti che, secondo l’aforisma di Olivier Roy, «è inutile conoscere l’arabo per capire cosa succede nelle periferie» (e altrove).
Ciò ha inibito qualsiasi politica di comunicazione nel mondo musulmano tesa a spiegare il significato delle misure francesi, e ancor più la traduzione delle osservazioni presidenziali in questa lingua «inutile».
La decisione di parlare sul canale Al Jazeera con un doppiaggio in arabo di qualità non è un’idea dell’inquilino dell’Eliseo, ma una mossa obbligata contro la sollevazione di un’opinione pubblica internazionale che va dalla Guida Suprema Khamenei al Financial Times, la quale si scaglia, in nome di princìpi universali, contro la presunta islamofobia della Francia e il suo secolarismo stigmatizzato come incongruo e particolarista.
La Francia ha pagato a caro prezzo la propria incapacità di comunicare in arabo e la propria politica miope dovuta all’ignoranza di questo idioma nella certezza che gli arabisti andavano tenuti lontano da qualsiasi contributo alle politiche pubbliche su tale argomento…
Tuttavia, il problema sotteso alla diffusa mancanza di cultura tra l’alta amministrazione e i baroni dell’università è sorto con tanta più urgenza da quando il termine “islamista” – che in francese designa l’Islam politico, e in particolare la Fratellanza musulmana, ora culturalmente permeata da un salafismo radicalizzato – non ha equivalenti in lingua araba: il termine più vicino, islamawi, risulta poco utilizzato e privo di connotazioni significative.
Per quanto riguarda la nozione di “separatismo”, di cui possiamo tuttavia trovare equivalenti in arabo con un certo grado di senso – dal termine fitnah (“sedizione”, in particolare di carattere confessionale, racchiuso nel sintagma fitnah ta’ïfiyya) a quello di bara’a (“rottura”, “disconoscimento” dei miscredenti) che costituiscono la base dell’ideologia salafita –, essa richiede uno sforzo di chiarimento che è rimasto lettera morta anche in inglese o tedesco.
I nemici islamisti del presidente Macron hanno approfittato di questa grave imperizia per trasformare il concetto di “separatismo islamista”, evocato durante il discorso del presidente francese a Les Mureaux il 2 ottobre 2020, in un’accusa rivolta ai musulmani nel loro insieme (“islami-sta” è stato tradotto con islami [islami-co]). Questa stortura artificiosa è stata fornita loro da organizzazioni e associazioni in Francia come quella “umanitaria” di BarakaCity o la Ccif che cavalcava l’onda dell’“islamofobia francese”.
La questione è stata poi ripresa da una parte della stampa anglosassone, sempre pronta a denunciare la laicità d’oltremanica o d’oltreoceano, cedendo alle seduzioni di un French bashing (denigrazione) che rifiuta di vedere in questa dottrina l’emancipazione degli individui dalla dominazione confessionale, percependola invece come una continuazione, a seconda che si rivendichi una superficiale tradizione protestante o ebraica, delle dragonate di Luigi XIV o dell’antisemitismo di Pétain di cui Emmanuel Macron e i suoi predecessori sarebbero lo strumento di attualizzazione verso i musulmani di Francia.
Secondo questa visione delle cose, la libertà di blasfemia sarebbe diventata un’ingiunzione a «sputare sulla religione dei deboli».
Questa visione farisea si trova declinata dai nostri islamo-gauchisti in termini come “decolonialismo” e “intersezionalità” che vanno per la maggiore negli ambienti universitari, e che proibiscono qualsiasi approccio critico a una fede all’interno della quale possiamo nondimeno distinguere, come nel cristianesimo, nel giudaismo, nell’induismo – o addirittura nell’ateismo, nell’agnosticismo o nella massoneria – varie letture, forme di pietà mistica e politica, occasioni di scontro così come di sintesi.
Ma, anche in questo caso, l’ignoranza generale della lingua e della cultura araba, e degli altri idiomi e tradizioni delle aree musulmane, porta alla costruzione di un amalgama indistinto analogo a quello dell’estrema destra, tranne per il fatto che è normativamente invertito.
Mentre alcuni demonizzano tutti i musulmani e la loro religione come un’entità ontologicamente negativa, altri si accontentano di trasformare il ragionamento in una positività tanto edulcorata quanto essenzialista.
Varrebbe piuttosto la pena meditare su ciò che è accaduto alle controparti turche dei nostri francesi “illuminati”, che hanno reso il signor Erdoğan all’inizio di questo secolo il modello delle virtù democratiche e dell’autenticità culturale di fronte agli eredi “fascisti secolari” di Atatürk, prima di finire a languire in prigione tra privazioni e torture, in modo analogo agli utili idioti di un tempo che, dopo essere stati i compagni di viaggio del comunismo, sono stati rinchiusi nei gulag come ringraziamento per la loro volontaria cecità.
da “Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente”, di Gilles Kepel, Feltrinelli, 2021, pagine 304, euro 18