Il mondo in un oggettoCome lo smartphone ha migliorato (e sconvolto) le nostre vite

In “Noi siamo tecnologia” (Mondadori), il fisico Massimo Temporelli illustra i cambiamenti imposti dalle nuove scoperte su tutti noi. Un lungo viaggio che va dalla selce alla barra di Google, passando il freno e Wikipedia. Il fatto è che siamo quello che creiamo. E i nostri strumenti diventano parte della nostra esistenza

di Rodion Kutsaev, da Unsplash

L’iPhone non è stato il primo smartphone della storia, anche se è stato quello che ha reso popolare questo concetto, diventando poi il paradigma con il quale esso si è diffuso nella nostra società.

Come dice la parola stessa, smartphone significa «telefono intelligente», ovvero un dispositivo in grado di fare telefonate ma che allo stesso tempo integra anche funzioni tipiche del personal computer, come archiviare, elaborare e trasmettere dati, attraverso l’uso di un apposito sistema operativo.

La telefonia mobile è nata negli anni Settanta con i radiotelefoni, ma è si è imposta solo negli anni Novanta grazie alle prime reti cellulari. Rispetto alla radiotelefonia, che funzionava solo in città e prevedeva un’unica antenna e dunque un unico punto di accesso per tutti gli utenti, producendo un vero e proprio collo di bottiglia per gli abbonati a questo servizio, la tecnologia cellulare, dividendo il territorio in tante celle (da qui il nome), aumentava incredibilmente il numero di chiamate supportate. Questo permise la diffusione del servizio e l’aumento degli utenti, innescando la rivoluzione della telefonia mobile.

I telefoni cellulari dei primi anni Novanta erano semplici terminali passivi, senza nessuna funzione aggiuntiva, nemmeno la rubrica, e spesso privi di monitor o con schermi molto piccoli. Si componeva il numero sul tastierino e si schiacciava il pulsante di chiamata, oppure, in ricezione, si premeva il tasto «rispondi». Punto. Niente più di questo.

Anno dopo anno, però, anche grazie al miglioramento e alla miniaturizzazione dei circuiti integrati e all’implemen-tazione di nuove reti di comunicazione mobile – che passarono in un decennio dalle tecnologie di prima generazione (1G) come TACS e ETACS a quelle di seconda generazione (2G) come GMS, fino a quella di terza (3G) come UMTS –, i telefoni cellulari iniziarono il loro cammino per diventare sempre più smart e ricchi di funzioni.

Proprio a partire dai primi anni Novanta, le aziende di informatica ed elettronica hanno cominciato a proporre dispositivi mobili con qualche funzione intelligente, ibridando i Personal Digital Assistant (PDA), chiamati anche «palmari», con i telefoni cellulari. Nel 1994 la statunitense IBM, per esempio, presentò il modello Simon, che integrava funzioni come il calendario, il blocco note, la rubrica, l’orologio, la posta elettronica e alcuni giochi. Nonostante il prezzo piuttosto elevato, ne vennero vendute ben 50.000 unità.

Il processo di fusione tra i Personal Digital Assistant e i telefoni cellulari è inoltre evidente in due modelli del 1996: l’OmniGo 700X di HP, che univa il PDA HP 200LX con il telefono cellulare Nokia 2110, e soprattutto il Nokia 9000 Communicator, un dispositivo che si apriva a conchiglia e che al proprio interno nascondeva uno schermo e una tastiera QWERTY, che permettevano di usare molte funzioni smart.

Il primo telefono chiamato «smartphone» fu il modello GS88 proposto dalla Ericsson nel 1997, mentre il primo dotato di un proprio sistema operativo fu il modello R380 sempre della casa svedese. Il sistema in questione era il Symbian, software nato dalla collaborazione fra diverse aziende di elettronica e informatica e oggi del tutto abbandonato.

A cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, il mercato dei telefoni cellulari (smart e non) era dominato fondamentalmente da poche marche: la norvegese Nokia, la svedese Ericsson, la statunitense Motorola e la canadese RIM, che produceva i modelli Blackberry.

Tutte queste aziende erano impegnate da diversi decenni nello sviluppo della tecnologia e del business della telefonia e delle radiocomunicazioni. Per questo motivo nessuno avrebbe potuto immaginare che un tale oligopolio potesse essere letteralmente spazzato via da un’outsider: la Apple.

Arriva l’iPhone

Probabilmente, all’inizio del nuovo millennio nemmeno Steve Jobs, fondatore e amministratore delegato di Apple, avrebbe mai pensato che sarebbe finito a progettare tecnologie per la telefonia mobile, diventandone poi il più grande innovatore e acquisendone la maggioranza delle quote di mercato.

Nel 2001, l’imprenditore statunitense aveva lanciato iPod, il lettore di mp3 che insieme a iTunes permetteva alla sua azienda di cavalcare la distribuzione della musica digitale sul web. L’intuizione di Jobs era giusta, tanto che in quattro anni questi prodotti divennero così importanti per Apple da rappresentare quasi il 50 per cento del suo fatturato, rilanciando il brand e aumentando di riflesso anche la vendita dei computer della mela, i Mac.

La Apple non era mai andata così bene, il suo ecosistema di hardware e software sembrava destinato a conquistare quote di mercato ancora più ampie. Tuttavia, proprio nel 2005 Jobs si rese conto che i telefoni cellulari stavano diventando sempre più smart, permettendo di includere nuove funzioni, e che prima o poi avrebbero finito per integrare anche i lettori mp3, invadendo il dominio dell’iPod e mettendo a repentaglio il nuovo modello di business della sua azienda.

Solo per questo motivo Steve Jobs decise di occuparsi anche di telefonia mobile, scendendo velocemente in campo per non farsi trovare impreparato davanti a quella che sembrava un’ineluttabile certezza, ovvero che il consumo della musica era destinato a convergere nel telefono.

La fretta di trovare una soluzione lo portò inizialmente ad assumere una decisione che raramente aveva preso nella sua vita imprenditoriale, ovvero aprirsi a una collaborazione con un partner industriale, perdendo così il controllo del processo di progettazione del nuovo dispositivo, cosa che Jobs non amava, anzi non sapeva proprio gestire.

Come ho detto, la statunitense Motorola era una delle aziende leader del mercato dei telefoni cellulari all’inizio del Duemila, e proprio in quegli anni il suo famoso smartphone Razr (successore dello Startac) vendeva milioni di pezzi. Grazie a questa leadership e soprattutto alla stima e all’amicizia che legava Jobs all’amministratore delegato di Motorola, Ed Zander, le due aziende decisero di collaborare, proponendo al mercato già nel settembre 2005 il Motorola Rokr, uno smartphone che integrava il software iTunes di Apple per l’acquisto e la riproduzione degli mp3.

A metà strada tra l’iPod e il Razr, dunque né carne né pesce, questo prodotto frutto del co-branding tra Motorola e Apple fu un vero e proprio fallimento a livello sia di critica sia commerciale. Per questo motivo Jobs, senza perdere altro tempo, chiuse la collaborazione e aprì un cantiere interno per progettare e produrre uno smartphone targato interamente Apple, che sarebbe passato alla storia con il nome di iPhone.

Non è compito di questo libro raccontare i dettagli del progetto iPhone. Quello che mi preme dire è che questo dispositivo è stato il terzo tassello della rivoluzione tecnologica e culturale di Steve Jobs, dopo il Mac e l’iPod. Anzi, presentandolo ad amici, collaboratori e giornalisti, Jobs spesso diceva che era la cosa migliore che avesse fatto in tutta la sua carriera.

In effetti l’iPhone ha rappresentato davvero una profonda rivoluzione rispetto agli altri smartphone prodotti fino ad allora. A ben guardare, Jobs e la Apple non inventarono nulla di nuovo: il dispositivo non era nient’altro che un telefono che integrava al suo interno un computer. Ma in tutti i suoi dettagli e le sue caratteristiche, dai materiali al sistema operativo, fino all’interfaccia e alle icone, l’iPhone era qualcosa di mai visto prima.

Vetro e metallo sostituivano la plastica largamente usata negli smartphone dell’epoca, la batteria era integrata nella scocca e non poteva essere estratta, lo schermo era gigantesco grazie alla scelta di fare sparire del tutto la tastiera fisica che occupava invece più del 50 per cento della superficie dei dispositivi dei competitor. Il sistema operativo era rivoluzionario (Apple iOS), così come l’interfaccia utente, che non prevedeva rotelle, pad o pennini ma solo l’uso delle dita e un sistema di gesti multitouch acquistato dall’azienda FingerWorks.

Jobs e il suo team, in soli due anni, avevano fatto il miracolo. Partendo da zero avevano messo a punto un software perfetto, capace di comandare e pilotare un hardware altrettanto ben disegnato.

Guardando ma soprattutto usando l’iPhone, sembrava davvero di vedere concretizzarsi le parole che un altro genio, Italo Calvino, scrisse a metà degli anni Ottanta nel libro “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”:

È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso.

Leggendo queste parole e osservando il funzionamento dell’iPhone è impossibile non chiedersi se Jobs abbia letto Calvino. A me piace pensare di sì.

Come sapete, l’iPhone è stato ed è un successo senza precedenti: proprio mentre scrivevo questo capitolo, a circa quindici anni dal suo lancio, la Apple ha annunciato che a livello mondiale ne sono attivi ben un miliardo di esemplari. Un numero davvero sbalorditivo, impensabile per altri strumenti elettronici della stessa categoria.

da “Noi siamo tecnologia. Dieci invenzioni che ci hanno cambiato per sempre”, di Massimo Temporelli, Mondadori, 2021, pagine 192, euro 18

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