Vi dico un segreto all’orecchio stasera: ogni tanto ha ragione anche Fedez. Perlomeno quando, come ha fatto mercoledì, si domanda se non sia un filo eccessivo chiedere al Parlamento di legiferare sul diritto di esprimersi suo e di sua moglie Chiara Ferragni. Certo, se il nuovo grande totem ideologico della sinistra divenisse nei prossimi anni la mancata legge sul conflitto d’interessi di Fedez, cioè uno dei primi cantori del grillismo, bisogna dirlo, sarebbe un contrappasso degno di una tragedia greca, o forse di una commedia all’italiana. Ma andiamo con ordine.
Mercoledì Stefano Feltri scrive su Domani, in un editoriale preoccupato – o era ironico? – che occorre regolamentare «l’influenza degli influencer» sulla vita pubblica, prima di finire come siamo finiti con Silvio Berlusconi. Perché ai 24,1 milioni di follower di Ferragni si sommano i 12,6 di Fedez: «Una parte saranno sovrapponibili, ma la loro influenza si estende poi su altri social (su Twitter Fedez ha 2,5 milioni di follower, per esempio). Calcoliamo, a spanne, che il loro intervento sulla legge Zan abbia raggiunto 30 milioni di persone». Ragion per cui «i tanti che, giustamente, si preoccupano delle minoranze oppresse dalle maggioranze e per questo difendono la legge Zan, dovrebbe[ro] fare un pensierino anche su come si sente in Italia una persona che la pensa diversamente dai Ferragnez su un qualunque argomento».
Fin qui l’editoriale che ha suscitato ieri le comprensibili proteste di Fedez. Merita però di essere segnalato anche l’articolo di intento opposto, eppure curiosamente simile nelle premesse, scritto ieri su Repubblica da Chiara Valerio. Che comincia così: «Ieri mattina mi sono svegliata e ho cominciato a fare un conto a spanne. Alle elezioni politiche del 2018, sono andati a votare circa 34 milioni di aventi diritto. I follower della Ferragni sono appena più di 24 milioni, quelli di Fedez appena meno di 13 milioni. Supponendo che l’intersezione dei due insiemi non sia vuoto, possiamo pensare che in due, quando, per esempio, sono seduti sul divano, raggiungano circa 30 milioni di follower».
Ad ogni modo, Valerio si dice tra l’altro ben felice – o era ironica? – per il fatto che Ferragni e Fedez «attraverso gli annunci riescono a raddrizzare storture del nostro quotidiano democratico».
In altre parole, ogni mattina, quando si alza il sole, non importa se tu sia pro o anti Ferragnez, l’importante è che cominci a correre dietro a trenta milioni di follower – a spanne, s’intende – per salvare la democrazia, o almeno raddrizzarne le principali storture (dimenticando, sia detto per inciso, che un conto è il numero dei follower, e un altro, ma proprio tutt’altro, è quello delle persone effettivamente raggiunte).
Ai tempi del movimento dei girotondi non c’era Instagram e non c’erano influencer, ma c’era, in una parte della sinistra, una simile ossessione per le televisioni di Berlusconi. Ossessione dietro cui si nascondeva l’idea – la grande illusione e il grande alibi – secondo cui ogni vittoria della destra non dipendeva da una libera e legittima scelta degli elettori, perché il gioco era truccato, perché c’erano le televisioni, la pubblicità, i persuasori occulti.
Un lettore particolarmente giovane e ingenuo potrebbe essere portato a credere che da una simile lettura discendesse naturalmente un giudizio più indulgente verso i dirigenti della sinistra e le loro sconfitte (non abbiamo appena detto che la partita era truccata a loro svantaggio?).
E invece no. Anzi. Tutto il contrario. La teoria secondo cui il gioco era truccato per far vincere Berlusconi si combinava infatti con la tesi secondo cui, a permetterglielo, sarebbero stati proprio i dirigenti della sinistra, non facendo la famosa legge sul conflitto d’interessi (come se fosse facile).
Riassumendo: quelli che altrimenti avrebbero senza alcun dubbio stravinto le elezioni e potuto governare serenamente per decenni, per qualche misterioso motivo, preferivano complottare con il leader del fronte avverso per far vincere lui.
Per quanto possa sembrare assurdo, questa era, andando all’osso, la tesi centrale ripetuta ossessivamente da un ampio circuito giornalistico-intellettuale (molti continuano ancora oggi), da cui sarebbe nato anche il movimento dei girotondi, il cui primo vagito fu il celebre grido di Nanni Moretti: «Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai».
Un grido che poi, oggettivamente, non era altro che un’anticipazione della rottamazione. Non per niente, gli stessi erano anche i bersagli, a cominciare da Massimo D’Alema.
Solo che il mondo gira, le cose cambiano, e oggi al posto dei registi ci sono gli influencer, al posto di Moretti c’è Fedez, e al posto di D’Alema c’è proprio Matteo Renzi, che ora ha anche scritto un libro con lo stesso – in verità non originalissimo – titolo di quello che D’Alema pubblicò nel 2013: «Controcorrente». A conferma del fatto che, quando i consensi cominciano a mancare, si tende evidentemente a fare di necessità virtù, vantandosi di un anticonformismo che è sì un tratto del carattere di entrambi, ma pure, ormai, una condizione di fatto. Anche una scelta, certo. Ma anzitutto una scelta degli altri.
E così, in tempi di identità politiche non meno fluide delle identità di genere, abbiamo Fedez nel ruolo di Moretti – quello che in Aprile gridava all’immagine di D’Alema nel televisore: «Di’ una cosa di sinistra» – e Renzi nella parte di D’Alema. Ed è ancora niente.
La vera caratteristica di questi tempi è che Fedez, o meglio i Ferragnez, sono al tempo stesso sia Moretti sia Berlusconi, come si vede dalle diverse e opposte reazioni che sono capaci di suscitare a sinistra, tra chi li promuove nuovi intellettuali di riferimento e chi vorrebbe regolamentarne l’accesso a Instagram, per non parlare di chi trova immorale che si permetta loro – nel caso specifico: a Chiara Ferragni – di farsi fotografare in un museo. Neanche ci avesse organizzato un bunga bunga.
D’altra parte Fedez è pure uno dei primi cantori del Movimento 5 stelle, e la storia Instagram da cui è partita l’ultima polemica con Renzi sulla legge Zan, quella che ha spinto a fare tanti calcoli su follower e like, è opera di Chiara Ferragni, che di suo peraltro ci ha messo solo il commento: «Che schifo che fate politici». Un distillato di grillismo, nella forma e nella sostanza (e nella punteggiatura).
A dimostrazione di quanto, con l’ingloriosa fine del Movimento 5 stelle, figlio legittimo di tutte le campagne, i complottismi e le paranoie di cui sopra, abbiamo risolto un bel problema, certo, e va bene così. Ma poi ce ne restano mille.