Non è vero che vent’anni d’impegno della Coalizione Internazionale a guida statunitense non hanno avuto in Afghanistan nessun effetto positivo. Nel 2018, ad esempio, l’aspettativa di vita media degli afghani era cresciuta a 65 anni, dai 56 che era all’inizio dell’intervento. Tra il 2000 e il 2019 la mortalità dei bambini sotto i cinque anni si è ridotta della metà. Tra il 2001 e il 2019, l’indice di sviluppo umano è aumentato del 45%. Tra il 2002 e il 2019 il Pil afghano è triplicato e quello pro-capite è raddoppiato, anche tenendo conto dell’inflazione, risalendo così di quattro posizioni dal quartultimo posto nella classifica mondiale. Tra il 2005 e il 2017 il livello di alfabetizzazione tra i 15 e i 24 anni è cresciuto del 28% tra i maschi e del 19% tra le femmine, soprattutto grazie al miglioramento nelle aree rurali.
Sono dati misurati in What We Need to Learn: Lessons from Twenty Years of Afghanistan Reconstruction un rapporto di 140 pagine redatto da uno Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar) che era stato stabilito 13 anni fa dal Congresso di Washington come agenzia indipendente di controllo sulla missione in Afghanistan e i suoi compiti di ricostruzione. Ma il documento, alla fine, fotografa un colossale fallimento. Ancora più clamoroso, perché in realtà anche se è uscito a ruota dell’improvviso crollo del regime e dell’entrata dei Taleban a Kabul era stato preparato prima.
Undicesimo tra i rapporti annuali dell’Ispettore Speciale Generale per la Ricostruzione dell’Afghanistan, aveva però un titolo che proponeva un bilancio: «Cosa ci serve d’imparare: Lezione da venti anni di ricostruzione dell’Afghanistan». Pur senza arrivare proprio a prevedere il collasso, la «lezione» era che se gli Stati Uniti vorranno imbarcarsi in futuro in altre operazioni di State rebuilding del genere, dovranno fare cose diverse e in molti casi anche opposte da quelle fatte in Afghanistan. Apprendere da queste «lezioni critiche», spiega il Sigar, «salverà vite e servirà a prevenire sprechi, frodi e abusi».
Il Sigar ha fatto 760 interviste a politici, diplomatici, generali, ufficiali, esperti di sviluppo e altra gente che avuto un ruolo in questa vicenda; 145.000 miliardi sono stati i dollari che secondo la sua stima sarebbero stati stanziati in questa ricostruzione. Altri 837 miliardi sono stati spesi dal Dipartimento alla Difesa per uno sforzo bellico in cui 2443 soldati Usa a 1144 alleati sono stati uccisi e altri 20.666 feriti. Più 66.000 soldati afghani uccisi, più 48.000 civili afghani morti e 75.000 feriti. Ma il rapporto avverte che entrambe queste due ultime cifre sono probabilmente sottostimate in modo significativo.
Segnale importante di come fosse difficile la situazione, l’80% delle spese del governo venivano da contributi di donatori. Anche da qui, probabilmente, viene il modo in cui l’annuncio del ritiro ha innescato l’improvviso crollo. «Inoltre», osserva il rapporto, «la coltivazione del papavero da oppio ha continuato a crescere verso l’alto per due decenni, malgrado il governo degli Stati Uniti abbia speso quasi 9 miliardi di dollari nel tentativo d’invertire questa tendenza.Non c’è da sorprendersi se l’Afghanistan ha continuato a essere classificato tra i Paesi più corrotti del mondo».
Malgrado gli indubitabili progressi, osservava il Sigar, «la domanda chiave è se sono commisurati con l’investimento che hanno fatto gli Stati Uniti o se saranno sostenibili dopo un disimpegno statunitense». La risposta a entrambe le domande era: no. E il rapporto citava a questo punto la confessione di un funzionario del Pentagono: «se guardiamo a quanto abbiamo speso e quanto ne abbiamo ottenuto, c’è da rimanerne sconvolti». Ciò anche perché l’obiettivo da perseguire è cambiato in continuazione: all’inizio semplicemente distruggere al-Qaida; poi togliere il potere ai Taleban per aver dato loro asilo; dopo ancora impedire che l’Afghanistan potesse fare da santuario e gruppi terroristi; da ultimo aiutare il governo civile a legittimarsi e acquisire il liberi consenso degli afghani.
Il fallimento il Sigar lo assume in prima persona, quando spiega che «dalla sua creazione, nel 2008, aveva tentato di fare in modo che il tentativo del governo americano di ricostruire l’Afghanistan potesse avere successo». Per questo nel corso della sua esistenza aveva rilasciato 427 audit, 191 rapporti su progetti speciali, 52 rapporti trimestrali, 10 rapporti annuali. Le sue indagini penali hanno portato a 160 condanne. E spiega anche di aver contribuito a risparmiare al contribuente americano per lo meno 3,84 miliardi di dollari. Ma si è trattato in un risultato minimo, di fronte a un tipo di strategia che era stata incoerente dall’inizio. Portata avanti appunto con una grande quantità di risorse, ma priva sia di una leadership coesa che di una missione ben definita.
Le 140 pagine si dilungano nel parlare di progetti spesso insostenibili, corrotti e costretti a scadenze irrealistiche. Una interminabile litania su incompetenze, interferenze, non comprensione e pii desideri. Sebbene successiva alla storia narrata, la vicenda finale del modo in cui le forze afghane si sono squagliate senza combattere evidenzia chiaramente che c’erano problemi da parte dei locali. Ma allora ancora più grave è il modo in cui i funzionari statunitensi non solo hanno interpretato in modo sbagliato le condizioni sul campo, ma le hanno addirittura ignorate o mascherate quando non si adattavano alla loro narrazione di progresso. «I funzionari statunitensi hanno creato scadenze esplicite nell’errata convinzione che una decisione a Washington potesse trasformare il calcolo delle complesse istituzioni afgane, dei mediatori di potere e delle comunità contestate dai talebani».
«Piuttosto che riformare e migliorare, le istituzioni afgane e gli intermediari del potere hanno trovato il modo di cooptare i fondi per i propri fini, il che ha solo peggiorato i problemi che questi programmi dovevano affrontare».
Il rapporto sottolinea anche che questi stessi funzionari hanno spesso scelto persone sbagliate, alimentando corruzione e risentimenti. Ma il dato più grave è stata la non comprensione della realtà locale. Un esempio su tutti: «tra il 2003 e il 2015», osserva il rapporto, «il governo degli Stati Uniti ha speso più di un miliardo di dollari per la programmazione dello Stato di diritto in Afghanistan, con circa il 90% di quei finanziamenti destinati allo sviluppo di un sistema legale formale».
Ma quel sistema «era estraneo alla maggior parte degli afgani, che hanno favorito i tradizionali meccanismi informali di risoluzione delle controversie a livello comunitario, dove si stima che dall’80 al 90% delle controversie civili siano sempre state gestite». Ora, non solo il Sigar osserva che «tali sistemi giudiziari informali operano secondo regole familiari alla maggior parte degli afghani». Riconosce anche che quel sistema tradizionale, alla fine, «è molto più efficiente». «Nel sistema giudiziario formale, i casi possono languire per mesi, nonostante centinaia di milioni di dollari statunitensi spesi nel tentativo di riformare il sistema legale».
A quanto riferiscono le testimonianze raccolte, non è che all’inizio gli afghani non abbiamo provato a rivolgersi ai tribunali ufficiali. Ma alla fine hanno deciso che con i Taleban si faceva prima. «Mentre i governi degli Stati Uniti e dell’Afghanistan si sono concentrati sull’estensione della governance attraverso la fornitura di servizi, compreso il sistema giudiziario formale, i talebani hanno gareggiato per il sostegno popolare fornendo una parvenza di sicurezza e giustizia attraverso la propria versione della tradizionale risoluzione delle controversie. Anche se i risultati dei processi gestiti dai talebani potrebbero non aver sempre prodotto quelli che gli Stati Uniti considererebbero risultati giusti ed equi, il percorso verso questi risultati è stato molto più rapido e familiare per molti afghani rispetto al sistema sponsorizzato dagli Stati Uniti. Come Farid Mamundzai, ex viceministro della Direzione indipendente per il governo locale, ha dichiarato a Sigar che «le regole di giustizia seguite dai talebani sono già comprese nella società, il che le rende più facili da accettare per la popolazione»
Insomma, anche in questo modo i Taleban si sarebbero costruiti la base che li ha infine riportati al potere.