«À la Carte è il risultato di un anno di distanziamento, in cui la mia produzione artistica è rimasta una delle poche zone in cui potevo respirare a pieni polmoni, senza paure e restrizioni». Inizia così la chiacchierata con Dora Perini, artista poliedrica che ha messo al centro della sua riflessione culturale il mondo del cibo e il nostro rapporto con esso. «La situazione Covid è stata un mix di fortune e sfortune: tra le fortune, di sicuro rientra l’aver speso più tempo a Vicenza e l’aver quindi potuto instaurare nuovi rapporti. Tra questi, quello con Riccardo Rizzetto, l’architetto che ha curato questa mostra. Quando è stato contattato dalla galleria londinese Des Bains per realizzare un progetto da presentare nel periodo di Miart, fin da subito ha ragionato sulla vitale importanza che poteva ricoprire il bisogno di unire e creare uno spazio-tempo per l’incontro. Si ragiona sulla nozione di spazio e di corpo e su come queste due definizioni possano risultare intercambiabili. Le mie opere sono state il menù da cui scegliere i piatti da portare al banchetto. La mia esperienza di vita rappresenta la mia narrativa personale da cui attingo e a cui mi riferisco nella mia pratica artistica. Con approccio analitico uso il mio passato e presente per visitare temi universali, ma la necessità di evoluzione interna ed esterna è la vera motrice di tutto».
La mostra, curata dall’architetto Riccardo Rizzetto, sarà presentata dalla galleria d’arte londinese Des Bains nello spazio Maroncelli 12 e avrà luogo in concomitanza con Miart 2021, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea che animerà Milano dal 17 al 24 settembre, una fiera di cui Milano è innamorata, e che offre l’occasione di entrare in contatto con grandi e celebri artisti e anche di scoprire realtà e progetti emergenti. Ma quanto l’arte è in grado di spiegarci la realtà che viviamo e di influenzare le nostre scelte quotidiane? Prosegue Perini: «Mi piace pensare che sia fondamentale. L’arte contemporanea non è chiara, non espone sempre un’idea precisa, e credo che questo permetta la nascita di uno spazio in cui si sussurra una possibilità. Si imbastisce una visione, così da poter finalmente condividere un terreno fertile, di incontro e costruzione ulteriore».
Il linguaggio artistico di Dora Perini si compone di differenti tecniche: acrilico su tela con, a volte, applicazioni di glitter, stampa su tela con acrilico e grafite, sculture in ceramica smaltata, passando per l’installazione Organi Interni realizzata in metallo, gommapiuma dipinta e specchi. Il rapporto col corpo e con lo spazio che esso occupa e i suoi legami con gli altri corpi nello spazio sono temi ricorrenti nel processo creativo dell’artista. Il trauma è il punto di rottura che permette davvero di innescare il processo di guarigione e quindi di evoluzione; senza mai ignorare la possibilità di subire un ulteriore trauma, essendo questo processo ciclico e fonte di progresso.
À la Carte è, per Dora Perini, un’occasione per confermare il proprio stile creativo, ma anche per interrogare l’industria alimentare e l’Io stesso sull’effettiva libertà che abbiamo di scegliere il nostro cibo, in un mondo traboccante di messaggi di peer-pressure di tutti i tipi. L’indagine è quindi sul nostro rapporto con il cibo, che troppo spesso non riusciamo più a percepire come effettivo nutrimento. L’artista ci spiega che cosa non abbiamo capito di questo binomio: «Non è così semplice come si potrebbe credere. Il turbine di sentimenti e propaganda in cui il cibo viene inserito è vertiginoso e costante. Noi nutriamo il nostro corpo, ma il nostro corpo è forse uno dei binomi più radicalmente complementari: è contemporaneamente oggetto e soggetto. Chiaramente l’oggetto funziona a tot calorie al giorno, ma la ricerca scientifica in merito all’alimentazione spesso si confonde in pubblicità che presentano un nuovo libro su come si mangia, qualche neo-illuminato che propone il digiuno intermittente, oppure un brand di integratori e farmaci per la perdita di peso che non solo promuove un prodotto spesso fuorviante, ma anche un ideale di donna artificiale, e, cosa peggiore di tutte, una donna che è, ancora oggi, oggetto».
E quando i rapporti di forza si invertono, nascono i problemi: «Il cibo è nutrimento, ma il nutrimento non è solo cibo: può capitare di non riceverne abbastanza, come succede alle piante quando non ricevono abbastanza sole, ma se nessuno ci insegna a riconoscere di che cosa abbiamo fame, la linea di demarcazione tra cibo e nutrimento risulta molto sfuocata. A volte la fame può non essere di cibo, ma se per caso questa “fame” si sovrappone alla fame vera e per caso fossimo tra i corridoi di un supermercato con prodotti perfettamente illuminati, perfettamente fotografati, saturi e colorati, e chimicamente programmati per creare dipendenza… beh saremmo mediamente fregati. Io credo semplicemente che questo sia uno dei tratti distintivi della giungla 2.0: ritengo necessario smascherare e parlare di questi meccanismi per portare avanti un dialogo consapevole sull’accettazione di sé e del prossimo, ma soprattutto per poterci permettere, forse, un giorno, il lusso di non dover distinguere il cibo dal “nutrimento”, sapendo distinguere il buon nutrimento dal cattivo “nutrimento”».
E, se sul nutrimento e il cibo abbiamo molto su cui riflettere, sul cibo inteso come arte Perini ci spiazza: «Il panettiere, per me, è il primo vero artista! Metaforicamente riferendosi a questo mestiere, considero la rielaborazione attraverso lo studio e la ricerca della materia una forma d’arte, così come la trasmissione dell’esperienza che si è avuta con quella materia, soprattutto quando è finalizzata al poter far ripercorrere anche a terzi questo vissuto. È una condivisione a fini inclusivi, con il desiderio di iniziare nuove contaminazioni e conversazioni che possano instaurare un processo evolutivo corale. Per me è arte lo yogurt al caffé della Centrale del Latte, i fiori di zucca impanati della nonna, e la pizza napoletana; esempi di ritualismo, folklore e sapere popolare che provengono dal passato, hanno attraversato periodi storici anche molto differenti, e si perpetuano nel contemporaneo, specchio di usanze e dinamiche sociali ancora attuali. L’arte, per me, sta nella pratica della creazione, ma soprattutto nel desiderio di trasmissione, connessione e coinvolgimento che può concretizzarsi in una narrativa che diventa inclusiva. La pratica culinaria penso sia tra le più affascinanti, perché, che lo si voglia o no, entra sempre a fare parte della nostra quotidianità e, a seconda della passione e dell’attitudine che si riversa nel praticarla, si arriva a risultati diversi di creazione e condivisione. Come nella cucina non ogni portata “funziona” non tutta l’arte è buona arte, ma questo è un altro discorso».
Da che presupposti parte un’artista che decide di fare del cibo arte? «L’arte è sentire. Il cibo è plurisensoriale, quindi è una materia incredibilmente complessa, ma anche diretta. Penso che i presupposti siano un po’ quelli di sempre: curiosità, coraggio e cocco bello! Una cosa però che noto spesso nelle mie avventure culinarie è quanto l’ambiente influenzi l’effettiva creazione. Come qualsiasi opera, il modo in cui viene esposta e l’ambiente in cui viene “digerita” è estremamente importante. Quando cucino per le persone che amo, tengo molto anche al modo in cui presento le pietanze e l’ambiente in cui siamo inseriti, come quando espongo le mie opere. La chiave di tutto sono sempre l’amore e la giusta luce».
E dopo aver tanto riflettuto sul rapporto tra arte, cibo, nutrimento e identità, abbiamo degli strumenti in più per capire meglio come mangiare, che cosa scegliere per il nostro corpo e soprattutto fare una spesa in modo più consapevole? Anche in questo caso, è il valore artistico a farci comprendere il senso del tema. «Attraverso la mia pratica artistica, desidero aprire uno spazio di dialogo, fornendo un input che sia visivo, ma che arrivi alle viscere, che fermi la quotidianità quel giusto che serve a dare il tempo di guardarsi dentro e analizzarsi per evolvere. Ogni movimento parte da una manifestazione e questa è la mia. È solo un collettivo interessato, però, che può attuare un movimento vero ed è l’unico modo per sfuggire alle dinamiche disfunzionali che ci imbrigliano, o in cui spesso veniamo imbrigliati, o, ancora, in cui, a volte, ci imbrigliamo da soli. È aiutarsi e stimolarsi a vicenda. Io tengo tantissimo al ritorno del pasto condiviso: mangiamo troppo spesso soli e non è sano. Siamo animali sociali, il cibo è amore e, come ogni forma di amore, va condiviso».