Bei tempi quelli della Ford Pinto. Era la fine degli anni ’70 e la Ford aveva messo in commercio la Pinto, una sorta di Duna d’oltreoceano che aveva per giunta il difetto strutturale di prendere fuoco. Le cose cambiarono nel 1977, quando la combattiva rivista di sinistra Mother Jones pubblicò un’inchiesta con cui dimostrò, tra le altre cose, che l’azienda sapeva del pericolo d’incendio, ma non ne aveva bloccato la produzione, causando di fatto centinaia di morti.
Dopo lo scandalo Pinto, l’intera industria automobilistica fu costretta ad adeguare i propri standard di sicurezza. Fu tutto merito di quell’articolo di quella rivista? Forse no: forse lo sdegno stava montando già da prima; ma fu senz’altro il colpo letale alla “Pinto Madness”.
Bei tempi, dicevamo, perché negli ultimi anni, dai fausti di Wikileaks in poi, ci siamo abituati a campagne giornalistiche grandi e complesse, frutto del lavoro di un whistleblower e, sempre più spesso, di diverse redazioni messe all’opera sugli stessi file. Un giornalismo a colpo di pdf e zip che ha caratterizzato gli scandali di Cambridge Analytica, ma anche i Panama Papers, con i suoi 2,6 terabyte di file. E ora i Facebook Papers, che stanno confermando i peggiori sospetti che molti nutrivano sul gigante guidato da Mark Zuckerberg, aggiungendone pure di nuovi.
La portata di questi dump informativi è imponente e potenzialmente soverchiante, figlia della stessa era digitale che ha reso Facebook un player geopolitico. Anche per questo i Facebook Papers non hanno ispirato una singola storia, ma una nebulosa di articoli, speciali, estratti e documenti pubblicati da decine di riviste e siti (su Protocol trovate un archivio di tutte le storie uscite finora). «La quantità di materiale è scioccante e francamente difficile da definire», ha scritto su Twitter Adrienne LaFrance, l’executive editor dell’Atlantic, tra i magazine che sta partecipando a quest’opera. «Parliamo di migliaia e migliaia di pagine di chat aziendali, ricerche e molto altro. Tutte cose molto tecniche. Non vedo l’ora che degli accademici possano metterci le mani».
Il leak della whistleblower Frances Haugen – la quale, particolare da film, ha dichiarato di non aver bisogno di soldi dopo aver lasciato Facebook «perché ho comprato criptovalute al momento giusto» – è quindi finito spezzettato, rischiando di trasformarsi da unica grande storia a un insieme di vicende di taglio minore. Ed è un problema. Perché al centro della nostra attenzione dovrebbe esserci Facebook, il monolite, l’unicum che sapeva dei danni causati da Instagram sulla salute mentale dei più giovani, che ha premiato per anni i contenuti in grado di generare reazioni di rabbia (cosa poteva andare storto?), che ha lavorato per minimizzare le conseguenze politiche del proprio algoritmo; e che, fino a poche settimane fa, pensava di lanciare Instagram For Kids per trasformare il tempo libero dei più piccoli nell’ennesima occasione di crescita. Un quadro d’insieme troppo denso e complesso per non collassare, infrangendosi in una sequela di scandali che potrebbero – questo il rischio – sembrare indipendenti l’uno dall’altro.
Eppure, non c’erano alternative: Facebook non è un modello di Ford infiammabile, è una complessa infrastruttura con 2,8 miliardi di utenti, operante in quasi tutti i Paesi con servizi e aziende diverse; la sua complessità non può esaurirsi in un articolo, e nemmeno in una campagna giornalistica vecchio stile. Come si racconta una storia contenuta in terabyte di scottanti documenti aziendali, di Slack e slide interne? Lo stiamo ancora capendo, giorno dopo giorno, scandalo dopo scandalo, non senza difficoltà.
Il rischio? Che la complessità venga “risolta” pubblicando tanti articoli e altrettante sacrosante inchieste, polverizzando il nucleo centrale del problema. E, inevitabilmente, riducendolo, specie agli occhi dei lettori e spettatori più occasionali, che potrebbero scambiare i Facebook Papers per “l’ennesima storia” sul social network. Solo che, questa volta, è La Storia, così come i citati scandali del passato avevano un raggio d’azione globale e terrificante. Una portata che, forse, non sappiamo ancora raccontare senza intaccarne le mostruose proporzioni.