Qualche anno fa ho scritto un libretto che non ha letto nessuno e che fin dal titolo, Chiudete Internet – Una modesta proposta, cercava di sbattere sulla faccia del mio immaginario lettore l’idea che il modello di business delle grandi piattaforme tecnologiche, la mancanza di regole sulla concorrenza, l’assenza di controllo antitrust e la dittatura dell’algoritmo fondato sulla rabbia e sul risentimento stessero indebolendo l’ossatura della società occidentale, manipolando i processi democratici, cancellando il dibattito pubblico, rafforzando le autocrazie e fiaccando allo stesso tempo la tenuta del mondo libero.
Da allora è certamente aumentata la consapevolezza dei governi democratici, Trump è stato sconfitto alle urne, poi è stato cancellato da Twitter e infine ha lanciato un assalto al Congresso. Gli agenti del caos hanno cominciato ad agire con maggiore circospezione rispetto a prima e adesso non si contano più i pentiti di Facebook che denunciano apertamente le decisioni ambigue del colosso di Mark Zuckerberg.
Ma al di là di questa tardiva presa di coscienza di un attacco in corso nei confronti della democrazia, cui siamo arrivati grazie ad audizioni parlamentari, documentari televisivi e libri-inchiesta (il più bello è An Ugly Truth di Cecilia Kang e Sheera Frenkel), nella realtà è cambiato poco o niente.
Non c’è ancora nessuna normativa antitrust, non c’è nessun provvedimento contro l’abuso di posizione dominante, non c’è nessuna tutela della concorrenza e dell’innovazione. Zuckerberg, al contrario, ha reingegnerizzato Facebook, Instagram e Whatsapp mettendoli tutti su un’unica piattaforma tecnologica, cosa che aveva promesso che non avrebbe mai fatto, proprio per rendere più difficile, quando sarà e se mai sarà, un intervento legislativo per spezzare il monopolio che ha costruito. Con Facebook, Instagram e Whatsapp separati e autonomi sarebbe stato più facile imporre la vendita di uno o dei due social: Zuckerberg è stato più lesto e l’occasione ora è sfumata.
L’unico segno di vitalità delle istituzioni politiche internazionali è stato l’introduzione di una tassazione globale per i mega profitti esentasse delle grandi piattaforme. Briciole benvenute, ma briciole.
Facebook non è rimasta ferma, diventerà un’azienda “metaverse”, potrebbe anche cambiare nome, ma è soltanto cosmesi per nascondere il fatto che Zuckerberg non ha alcuna intenzione di cambiare rotta, anzi pensa di modellare la società del futuro sui principi del gaming e di passare al nuovo livello di controllore unico dell’ambiente virtuale e fisico collegato a Internet. Questo è il metaverse di cui parla Zuckerberg. Una prospettiva spaventosa, visti i precedenti.
Sui giornali americani il dibattito è partito con grande intensità. L’editoriale di apertura dell’ultimo numero dell’Atlantic lo scrive senza giri di parole: «Facebook non è soltanto un sito web o una piattaforma o un editore o un social network o una concessionaria pubblicitaria online o una multinazionale o un servizio pubblico. È tutte queste cose insieme. Ma in realtà è anche una potenza straniera ostile».
E come una potenza ostile andrebbe affrontato, perché a una potenza straniera ostile non si può consentire che si costruisca un suo ecosistema virtuale e alternativo a quello reale, dentro il quale intrappolare e manipolare miliardi di utenti.
Il punto è che stiamo per entrare nell’epoca tecnopolare, sostiene l’analista Ian Bremmer, con le potenze digitali pronte a rimodellare l’ordine costituito globale. «È arrivato il momento di considerare le più grandi aziende tecnologiche come simili agli Stati – ha scritto Bremmer sull’ultimo numero di Foreign Affairs, la Bibbia americana della geopolitica – Queste aziende esercitano una forma di sovranità su una platea che rapidamente diventa sempre più larga e che è fuori portata dei regolatori: è lo spazio digitale. Le piattaforme competono sul fronte geopolitico e si confrontano con i limiti del loro potere di agire. Hanno relazioni internazionali e rispondono al loro collegio fatto di azionisti, dipendenti, utenti e investitori pubblicitari».
Il problema è che le piattaforme digitali non esercitano e basta una forma di sovranità sugli utenti e sui cittadini, ma che ne determinano anche i comportamenti. Le ricerche, riportate da Bloomberg, dimostrano per esempio che l’algoritmo di Facebook tende a indirizzare gli utenti più anziani verso contenuti cospirazionisti e i teenager sui temi legati al proprio corpo.
Serve quindi cambiare il modello di business dei social network, quello per cui in cambio della gratuità dei servizi offerti possono succhiare agli utenti le informazioni personali, sia quelle consegnate liberamente sia quelle dedotte dai loro comportamenti; e per utilizzare in modo profittevole queste informazioni personali, intrappolano gli utenti dentro una «Skinner box» virtuale, una di quelle gabbie da esperimenti per topi grazie alle quali gli scienziati sono in grado di anticipare le scelte delle cavie e addirittura di determinarle in base agli stimoli trasmessi. Noi siamo le cavie, i social sono la scatola, gli algoritmi sono in grado di anticipare le nostre mosse, le fake news sono gli stimoli, le piattaforme sono quelle che vendono la possibilità di farci cambiare comportamento.
Questo era scritto su Chiudete Internet. Quasi quattro anni dopo, non solo non abbiamo cambiato il modello di business dei social e nemmeno abbiamo protetto la società libera e democratica, ma ci stiamo addirittura consegnando al metaverso di Zuckerberg. Insomma, al nuovo totalitarismo digitale.