E così Mark Zuckerberg vuole costruire il metaverse. Da tempo il Ceo e fondatore di Facebook si è convinto che dietro al metaverso si celi il futuro di internet – e di Facebook, visto che Zuck tende a far coincidere le due cose. L’obiettivo è arrivarci prima degli altri in modo da poterlo colonizzare e monetizzare. E dopo mesi di annunci e foto in cui lo si vede indossare strani visori per la realtà virtuale, il colosso sembra voler passare ai fatti: «Facebook creerà diecimila posti di lavoro in Europa per dare vita al suo metaverso», come ha scritto Repubblica questa settimana. Di più: secondo The Verge, Facebook cambierà addirittura nome, un po’ perché ha bisogno di un forte rebranding, un po’ perché «Mark Zuckerberg vuole essere noto per aver costruito il metaverso».
Parte della campagna promozionale tipo “Pro loco Metaverso” in corso dalle parti di Facebook gioca nell’aura misteriosa che emana la parola stessa: a molti ricorderà le atmosfere di “Ready Player One”, ad altri il cyberspazio di “Neuromante” e altri romanzi o film. Ed è normale, visto che si tratta di una citazione letteraria da un romanzo del 1992, “Snow Crash” di Neal Stephenson, in cui gli umani interagiscono in uno spazio digitale, il Metaverso, utilizzando degli avatar, per sfuggire a una realtà distopica.
È difficile parlare di questi mondi virtuali senza ricorrere a una delle più abusate parole dei nostri tempi, distopia, ma sia il Metaverse che il Cyberspazio di William Gibson hanno radici non proprio felici. Insomma, chi ha inventato questi “spazi” nella fiction si aspettava di ispirare lettori e scrittori con storie di avventure fantascientifiche; non di offrire una nuova mission a una corporation il cui core business sono i dati personali di 2,8 miliardi di utenti.
Ma cosa vuole Zuckerberg da questo metaverso? La risposta è ancora traballante, visto che l’oggetto non esiste ancora, ma è possibile mettere in fila alcuni indizi e teaser dati dallo stesso Fondatore. Il metaverso di Facebook sarà uno spazio virtuale in cui, come da romanzo, gli utenti di Facebook potranno interagire utilizzando degli avatar, questo è certo. Non è una novità, visto che già nel 2017 il Ceo utilizzò tecnologie simili per fare un viaggio virtuale tra le strade di Puerto Rico, che era appena stata colpita dall’uragano Maria. Il risultato è impresso in una clip in cui lo si vede parlare, gelido, mentre vaga virtualmente tra strade disastrate e umanità spezzate.
È stata la pandemia ad aiutare l’ascesa del metaverso, imponendo il telelavoro a milioni di persone e riducendo a zero le opportunità di interazione sociale. Un mondo diverso, quello post-Covid, in cui – pensa Zuckerberg – potremmo aver bisogno più che mai di avatar pixelati. Questa volta, però, niente cataclismi naturali su cui sovraimporsi: pensiamo al lavoro. Ecco quindi la funzione Workplace per realtà virtuale, una sorta di Zoom “aumentato”, dove i team di lavoro possono interagire virtualmente utilizzando i visori Oculus (di proprietà di Facebook), stando attorno a un tavolo virtuale e prendendo appunti virtuali. Diciamo che “Snow Crash” è un po’ più avvincente.
Nonostante tutto, se Facebook è decisa a impiegare migliaia di persone per sviluppare questo, qualcosa vorrà pur dire. Rimane il sospetto che il metaverse sia un pivot tardivo e un po’ disperato di un colosso enorme, assediato da scandali politici d’ogni tipo e da una concorrenza sempre più agguerrita (TikTok), oltre che costretto a un rebranding complicato. “Metaverse”, al netto della sue origini da cyber-incubo, suona bene agli occhi di utenti e investitori: è un progetto ambizioso, molto, e vago, ancora di più.
Peccato che finora il sogno di Zuckerberg abbia avuto un’esecuzione blanda, finendo col rispondere a una domanda che mai ci saremmo posti, ovvero: “E se Second Life fosse anche un ufficio?”.
La corsa al metaverso è una forma di colonizzazione anomala, la corsa verso una terra digitale che per giunta non esiste nemmeno. A giudicare dalla fretta di Zuckerberg, quelle lande devono nascondere oro, e tanto, sotto forma di dati personali e annunci pubblicitari da proiettare sulle pupille di noi utenti. Una distopia, per usare quel termine così trito. E, perdipiù, noiosa.