Come spiegare l’eros? Di cosa è fatto il desiderio? Perché l’amore fa soffrire e suscita gioia (la sensazione di vivere, per la prima volta)? Indagare le pieghe, dolci e dolorose, del sentimento è da sempre compito di poeti e scrittori. L’autrice canadese Anne Carson lo sa e nel suo “Eros il dolceamaro”, del 1986 ma recuperato e pubblicato adesso in Italia da Utopia (con la traduzione di Patrizio Ceccagnoli), risale alle origini di questa ricerca partendo dai lirici greci: i primi che, del resto, si sono interrogati sugli effetti, distruttivi e vivificanti, di eros.
L’aggettivo “dolceamaro” (originale: «γλυκύπικρον») che guida tutto il libro è stato coniato dalla celebre poetessa Saffo. Sempre lei lo ricorda come “scioglitore di membra” (ὀ λυσιμέλης). È una presenza invincibile, inaspettata e insinuante. Sconquassa l’anima: «Eros viene dal nulla, alato, per travolgere l’amante, per privare il suo corpo degli organi vitali e della sostanza materiale, per indebolire la sua mente e distorcerne il pensiero, per sostituire le normali condizioni di salute mentale con la follia». Fa paura.
Carson ne svela, con la sua prosa precisa e avvolgente, il meccanismo. L’amore, spiega (o meglio: spiegano gli antichi), fa scoprire l’assenza. Ricorda la mancanza. La persona si trova menomata. Ma al tempo stesso, scopre i propri confini e cerca di superarli. È in questa tensione, tra ciò che si è e ciò che si vuol essere e – soprattutto – tra ciò che si sa e ciò che si vuol conoscere, che abita Eros. Il suo paradosso sta nel far tendere la persona verso ciò che non può raggiungere (come la mela alta della poesia di Saffo) perché il desiderio, in sé, è vuoto.
La cosa più interessante del libro è però un’altra. Il fatto che i primi a occuparsene siano stati i lirici greci, spiega Carson, non è un caso. Anzi, è in quel momento storico, cioè nel passaggio dalla tradizione orale a quella scritta (cioè quando «si passa dalla cultura della frase a quella della parola») che l’uomo ha imparato a essere innamorato. Prima, nella società dei poemi omerici, non era così: «L’estensione della narrazione epica si comprime intorno a un’emozione; il novero dei personaggi è ridotto a un solo io; lo sguardo poetico penetra nel soggetto come un unico fascio di luce». Le culture orali amano in modo diverso rispetto a quelle alfabetizzate.
Con la scrittura si ha per la prima volta «la compressione e la messa a fuoco» di ciò di cui si vuole parlare. I poeti non guardano più alla frase, appunto, ma al senso della parola. È qui che l’intimità diventa soggetto poetico. Le conseguenze sono epocali: cambia l’ordine di importanza dei sensi, visto che all’udito dell’ascolto si sostituisce la vista della lettura e cambia la percezione di sé, poiché all’esperienza comunitaria e condivisa si sovrappone quella personale, privata. È l’alba del foro interiore, dell’unità del soggetto. Perfino l’alfabeto greco stesso, nella sua peculiarità (quella di introdurre vocali e consonanti) contribuisce a questo cambio di prospettiva. In più riafferma, nella mente, la sensazione dei confini da superare – i segni grafici – e i limiti da stravolgere.
Il rapporto tra amore e letteratura è insomma intrecciato fin dalle origini. Su più livelli. Dalle formule che codificano l’emozione, inventate dai poeti del VII-VI secolo a.C, si arriverà al romanzo ellenistico del II d.C., dove gli stessi meccanismi (ormai acquisiti) vengono riutilizzati per inventare tribolazioni e avventure che separano due amanti – il tutto sempre inserito nella dinamica tra desiderio e separazione.
Ma la svolta centrale avviene nel V secolo a.C. È nel “Fedro” di Platone, su cui si concentra l’ultima parte del libro, dove emerge con chiarezza come il desiderio erotico mantenga parallelismi sospetti con l’amore per la lettura (che Socrate/Platone guardava con diffidenza). Entrambi nascono da situazione di confini ed entrambi si nutrono di un’aspettativa di sapere.
Però – fa notare Socrate/Platone – il vero amore è diverso, così come la vera conoscenza non si apprende dalla lettura ma dal dialogo e dalla riflessione. Secondo lui «un vero λόγος ha in comune questo con una vera storia d’amore: deve essere vissuto nel tempo. Non è lo stesso se viene letto in avanti o indietro, non vi si può entrare in qualsiasi punto, non lo si può congelare al suo culmine, né respingere quando il suo fascino vacilla. Un lettore, come un cattivo amante, può avere l’impressione di entrare nel testo in qualsiasi momento e raccogliere il frutto della sua sapienza».
L’errore è proprio qui: per Socrate, al contrario dei lirici, l’amore è un’esperienza esaltante, vivificante e soprattutto divina (tutto ciò che deriva dalla follia, spiega, è un dono degli dèi). Resistergli – così come si resiste alla vera conoscenza scambiandola con la sua contraffazione, cioè la lettura – è una sconfitta, perché «lettori e scrittori si dilettano col fascino delle lettere senza arrendersi alla presa di potere dell’eros o al mutamento dell’io che ne deriva».
Eros, insomma è lì, nell’intersezione tra desiderio, speranza e soddisfazione. È nel cammino che trasforma chi ne viene colpito, è nel suo mutare imprendibile nel tempo. «Si inizia a capire cos’è un λόγος, cosa non lo è e la differenza tra i due. Eros è la differenza. Come un volto che attraversa uno specchio in fondo a una stanza, ecco Eros che si muove. Ci protendiamo per afferrarlo. Ed ecco che Eros se ne è già andato».