«Bianciardi sta tutto nel suo sguardo replicato in ogni scatto fotografico che gli è stato fatto. Uno sguardo come in allerta, spaventato non si sa bene da cosa», scrive Gaia Manzini. Ed è vero. Irriducibile, incredulo, incazzato, Luciano Bianciardi non smette di guardarci con quegli occhi attoniti dalle copertine dei libri e di infestare le patrie lettere, come un fantasma barcollante e lucidissimo e suonato.
Forse è uno dei pochi a poter contendere a Pasolini il trono dei “chissà cosa ne direbbe lui oggi”, e che gioia non conoscere la sua opinione sulla Milano odierna o su termini come book influencer e smart working. Se ne sta lì, ingobbito nel cappottone, con i piedoni strascicanti che tanto detestava, schiaffato in copertina di libri che ne raccontano le parole, l’ambiente, i gesti (perfino le leggende, come quella – falsa – del cappotto di cammello prelevato a Giangiacomo Feltrinelli, in un esproprio estemporaneo).
Nel 1993 è stato il capolavoro di Pino Corrias, “Vita agra di un anarchico” (Baldini&Castoldi, ora tascabili Feltrinelli) a togliere la polvere da una statua che monumento non era stata mai. Nel 2003 è toccato a “Milano, la città di nessuno” di Alessandro Zaccuri (L’ancora del Mediterraneo), che forse andrebbe ristampato, memorabile reportage visionario in cui Bianciardi riemerge dalla metropolitana nel giorno in cui l’aereo da turismo pilotato da Luigi Fasulo si va a schiantare contro il Pirellone e vagabonda per il centro città a evocare i morti sparsi nella storia milanese. Quindi nel 2005 c’è stato il lavoro di Isbn con gli “Antimeridiani” e infine, più di recente, un volumone pubblicato dal Saggiatore, “Il cattivo profeta”. Adesso approda in libreria un piccolo libro di peregrinazioni dietro ai luoghi dove è passata la sua anima inquieta, scritto da Gaia Manzini e intitolato “A Milano con Luciano Bianciardi” (Giulio Perrone editore). Il sottotitolo è «Guida alla città romantica».
Era un romantico, Bianciardi, come recita anche il titolo di una canzonetta dei Baustelle? Indisponente, rompicoglioni, amarissimo. Ogni volta che qualcuno lo racconta ne descrive la risataccia, la complicità a suon di battute per vincere la timidezza, la provocazione anche volgare. E la bontà.
Innamorato del Risorgimento, diffidente verso il ’68, amante del calcio, fanatico del surreale in Jannacci. Istintivo, arruffato. Romantico? È difficile dirlo, così come è difficile interpretare una parola che suona bene ma che oggi non vuol dire niente. Forse a connotarlo in quel modo è la volontà di annientare sé stesso dopo non essere riuscito a cambiare granché del mondo, se non il proprio status: da “provinciale di talento contro il potere” a “bestseller di genio lisciato dal potere”.
Piace l’immagine di una persona irrisolta, idealista, aliena alle meschinità con cui conviviamo tutti, distrutta dall’urto con una realtà che pure ha conquistato. E vittima dello scacco madornale, classico: sputare sul sistema e vedere il sistema che ti ringrazia, anzi ti chiede educatamente di sputacchiare un po’ di più. Era salito per fuggire dalla Maremma, scappato da una tragedia operaia, perdendo per sempre autenticità con la conquista del successo, senza mai riuscire a trovare il bandolo per tornare indietro. Alle spalle aveva i minatori morti nelle miniere dell’odiata Montecatini e davanti una nuova entusiasmante avventura editoriale con quello che chiamerà «il giaguaro», l’uomo più ricco e rivoluzionario d’Italia, forse l’unico vero radical chic che abbiamo avuto (oggi che questa parola è sulla bocca di ogni destrone ignorante).
E lì Bianciardi non si troverà, pur trovando una grande ispirazione rabbiosa. Scriverà romanzi, uno più bello dell’altro, fino al capolavoro della “Vita agra” (nel ’62, due anni dopo “La dolce vita”, di cui è un curioso specchio rovesciato), fin quando tutto si spezzerà. I figli non gli davano senso, l’amore non gli dava senso (le ultime parole rivolte alla compagna saranno «è tutta colpa tua»), la letteratura nemmeno. E la città?
Seguiamolo con Manzini in un itinerario approssimativo. Arriva a 31 anni alla Stazione Centrale, una moglie e una figlia a Grosseto (arriverà un altro figlio non molto tempo dopo, e infine un terzo d’altro letto a Milano), e già una storia adultera in corso con la donna della vita, Maria Jatosti. Si ferma a un albergaccio in Porta Venezia, forse – come va a indagare l’autrice – l’Hotel Baviera di via Panfilo Castaldi, oggi diventato di lusso. È probabile che bazzicasse i bagni diurni lì vicino (oggi visitabili), insieme a quelli di piazza Duomo (oggi chiusi). Da lì sarebbe finito dritto dritto al celebre civico di via Solferino 8, Brera, in una pensione leggendaria, dove vivevano altri artisti e dove lo raggiunse Jatosti (ma anche la moglie Adria, in una mattinata da resa dei conti). Oggi la pensione non esiste più.
C’è un filmato esilarante su YouTube di Bianciardi famoso che ci torna e la celebre signora Tedeschi, la locandiera, lo ritrova: «Complimenti, ho letto i giornali! Ma che progresso che ha fatto!». Da lì, dove non c’è nemmeno una targa (ma ne avrebbe riso), si trasferisce per un breve periodo in un’altra pensione in piazza Duomo, dove la camera affaccia su una lettera della scritta «Cinzano» che si accende e spegne, con i colori che invadono la stanza. Quindi torna in Brera.
Sono gli anni del Jamaica, anzi del vicolo accanto al bar, unica via innominata di Milano e quindi giusto ritrovo di una banda di spiantati che vive a cappuccini e grappa gialla e che poi diventeranno famosi, come Morlotti, Tadini, Dondero, Mulas, Manzoni (il vicolo adesso è intitolato a lui). Poi una breve sosta in via Marghera. E infine la casa di via Domenichino 2, vicino alla vecchia Fiera, con la leggendaria stanza viola dove lavora a spron battuto, a scrivere e ancora di più a tradurre. Dopo una parentesi infausta a Rapallo, ritorna in una casa vuota e tristissima in via Boccaccio, dove beve fino alla morte. E poi i bar, il Derby, il teatro Gerolamo dove presentò il libro, acchittato e goffissimo.
In mezzo a questo girovagare, c’è il tentativo di identificare il leggendario «torracchione» che il protagonista della “Vita agra” vorrebbe incendiare e che è stato di volta in volta scambiato per Pirellone, Torre Galfa, Torre Breda, forse semplicemente la sede della Montecatini («tangibile», come diceva lui) in largo Donegani, l’ingegnere – peraltro livornese – che aveva scoperto i giacimenti di pirite. In realtà identificarlo non è poi così importante: il torracchione era il boom, Milano, il progresso inesorabile fatto sulla pelle dei poveracci.
Quella che rincorriamo strada per strada è una Milano che non esiste più e che forse non ha senso rimpiangere. Qui aleggia ancora molto, il Lucianone, un po’ santino maudit e un po’ parafulmine di tutti i nostri compromessi, nominatissimo e letto, con quell’italiano ruspante difficile ormai da trovare, la lingua che lui definiva «dotta, popolare, carognona», il romanzo immaginato come «una grossa pisciata in prima persona», l’incipit memorabile («Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è un mistero per nessuno», oggi è facile immaginare un editor chiedersi se sia il caso di tenere trenta righe di astrusa disquisizione etimologica per calarci nella bohème, con il rischio di perdere i lettori, e pare di sentirlo rispondere: «E perdiamoli, quei bischeri, tanto meglio se si fa senza di loro»).
È stato l’inventore del precario prima della precarietà in un’Italia che invece esplodeva di benessere («io queste cose le avevo già viste succedere, e sapevo che il collaboratore esterno è come uno che stia in terrazza quando tira vento e piove»). Libero e schiavo insieme, vittima della dialettica traduttore/scrittore: timido e schivo, sobrissimo e puntuale, ma poi godereccio e ridanciano, ubriaco e sbracato, fino a confondere i piani. In Henry Miller, grande infatuazione letteraria, vedeva un individualismo del tutto liberato che non riusciva a introiettare: gli piaceva, lo faceva ridere, eppure non era in grado di vivere in quel modo (lo soprannominarono «millerino»).
Insofferente agli integralismi democristiani e comunisti, Bianciardi commuove perché infine fu integralista soprattutto con sé stesso. Mai una posa. Perfino quando si sposò, la moglie volle mettere «dottore» sulla partecipazione e lui ne fece stampare un po’ senza il titolo per darle agli amici: si vergognava. Si trovò al centro di una mutazione antropologica, modernissimo nella sua intransigenza, eppure sempre più indietro, sempre più fiaccato dall’alcol e dal dispiacere, sempre più impastoiato nel passato e nel proprio io confuso, a fuoco per un breve periodo cristallino di critica e ragione del presente, prima di soccombere.
Milano era stata straniera due volte, prima come immigrato (bando alle nostalgie: stava in una pensione senza riscaldamento, con il bagno in comune, dove potevi lavarti una volta alla settimana) e poi come ossimoro vivente, l’anarchico di successo (gli elogi di Indro Montanelli, i salotti compiacenti, il perfetto abietto apocalittico integrato), eppure la città è inscindibile da lui. Proprio in quanto straniero, l’ha vista e narrata come è riuscito a pochissimi. Dice giustamente Manzini: «È stata la miccia del suo furore». Ma il fuoco non ha bruciato i grattacieli, ha bruciato lui.
Al funerale c’erano quattro gatti. La città gli ha dedicato una piccola via, nella periferia ovest. È vicina a via Mastronardi: chissà, forse gli avrebbe fatto piacere. Su un muro la scritta di qualche adolescente: «Sei quel legame che da lungo ho cercato e per questo non voglio perderti». Di certo non è rivolta a lui. Troppo romantica.