Il successo era scontato, forse anche gli applausi. Audray Azoulay è stata rieletta il 9 novembre direttrice generale dell’Unesco. Con 155 voti su 165 votanti (nove astenuti e un contrario) l’ex ministro della Cultura della presidenza Hollande e unica candidata in lizza si è aggiudicata un secondo mandato e altri quattro anni alla guida dell’agenzia delle Nazioni Unite. Una conferma che sembra tracciare la strada verso sviluppi futuri.
Azoulay, che nel 2017 era riuscita a imporsi di un soffio sul diplomatico qatariota Hamad Bin Abdulaziz Al-Kawari ha lavorato seguendo un principio fondamentale: la riappacificazione globale. Ad esempio ha lavorato per avvicinare le due Coree promuovendo il riconoscimento del Ssirŭm (una lotta tradizionale) come patrimonio culturale intangibile, ma soprattutto si è concentrata sul versante del Medio oriente, dove le dispute sui beni culturali di Gerusalemme da tempo sono fonte di problemi e tensioni.
I negoziati sul tema sono stati instradati, come scrive Le Monde, in modo molto prudente per evitare di incagliarsi e per sminare il terreno, anche a costo di ritardarli. Questo atteggiamento ha contribuito a far riavvicinare all’Unesco Israele e Stati Uniti, che avevano deciso di lasciare l’agenzia per le sue posizioni – dicevano – troppo filo-palestinesi.
Gli Stati Uniti, soprattutto, hanno tutto l’interesse a rientrare in gioco. Come aveva sottolineato Kirsten Cordell in questo articolo di gennaio su Foreign Policy, l’assenza americana dal 2017 (e lo stop ai pagamenti imposto da Obama dopo l’ingresso nel 2011 della Palestina) ha lasciato ampio spazo alla Cina. Pechino è diventata il primo contributore (il 15,5%) e negli ultimi anni ha cercato di ottenere qualcosa in cambio. Ha provato a spostare l’Ufficio Internazionale per l’Educazione (IBE) da Ginevra a Shanghai (mossa fondamentale se si vuole avere influenza nella scrittura dei programmi scolastici nei Paesi in via di sviluppo).
Ha tentato di piazzare il funzionario dell’Unesco Qian Tang al ruolo di direttore generale, ha firmato un memorandum di intesa con l’agenzia proprio sull’iniziativa Belt and Road e una dichiarazione congiunta Africa-Cina per la protezione del patrimonio culturale africano. Soprattutto ha contribuito a siglare una partership tra l’Unesco e il gigante tech Huawei per progetti di sviluppo in America centrale. Una tela diplomatica che estende, a suon di accordi, l’influenza cinese sul mondo.
L’America, spiega Cordell, dovrebbe rientrare proprio per questo. Il fatto che Audrey Azoulay abbia affrontato il problema dell’anti-semitismo nelle scuole (uno dei problemi sollevati dagli Stati Uniti) è incoraggiante. Ma le ragioni devono essere soprattutto strategiche. L’idea è che il presidente americano Joe Biden debba insistere proprio sugli investimenti in educazione, puntando su programmi che promuovano gli obiettivi strategici americani e, soprattutto, creino un argine alla diffusione globale dell’ideologia autoritaria. Certo, c’è da superare il problema dei conti: quando Washington, sotto la presidenza Trump, ha lasciato l’agenzia, aveva un arretrato di 542 milioni di dollari (la legge impone di bloccare i pagamenti alle organizzazioni in cui è membro anche la Palestina). Ma i vantaggi sono molti di più.
La stessa Azoulay, ricorda la Reuters, prima della sua rielezione è volata in America e ha cercato di corteggiare Jill Biden, la First Lady, che già in passato aveva collaborato ad alcuni programmi di istruzione Unesco, insieme ad alcuni senatori. Del resto, il ritorno americano sulle scene del patrimonio culturale farebbe da leva, sostengono gli esperti, anche a quello di Israele. E sarebbe un passo in avanti per la difesa della democrazia.