La potenza dei backbeatIl disco dei Massive Attack che 30 anni fa predisse la musica di oggi

I suoni inediti, la maniera fratturata di alternare beat e parti vocali, le tessiture sintetiche che evocano temperature tese e spesso inquietanti e i lampi distopici, rendono “Blue Lines” un album contemporaneo, ma è del 1991. I Massive Attack hanno inventato un genere prima ancora che si trovasse un’etichetta per definirlo. Read&Listen

Massive Attack

Massive Attack – “Blue Lines”, 1991

Ogni tanto, e molto raramente, arriva un disco che sintetizza una varietà di elementi preesistenti, e nel farlo apre una strada totalmente nuova. Crea un genere, crea un feeling che attraversa la scena contemporanea e la influenza, disegna il futuro senza che lo si sappia. “Blue Lines” è quel genere di disco, quella rarità di intuizione che all’inizio decennio ha definito un concetto totalmente nuovo della musica degli anni 90, che è radicalmente diversa da quella degli 80: il suono. Il suono come elemento identitario fondamentale, aldilà dei testi, della performance, dei protagonisti o dei solisti che lo creano.

Quel suono è il risultato di un mix, esempio emblematico di come non si inventa nulla, ma si collegano i punti in modo diverso, si trovano dosaggi diversi da quelli conosciuti prima: «Funk, soul, reggae, hip-hop e punk, è tutto lì dentro», nelle parole di Robert Del Nada, nome d’arte 3-D, artista visuale rigeneratosi come catalizzatore dietro il suono dei Massive Attack. Reggae inteso più come dub che classico battito in levare, ma soprattutto è il concetto di hip-hop – ovvero campionamenti, scratch e rap – che qui è portato a un altro livello: c’è un’eccezionale capacità di scegliere e usare i campionamenti, e un gusto squisito e innovativo di vestirli, trasformarli, integrarli con l’elettronica. 

È un’evoluzione del hip-hop di fine anni 80, quello dei Beastie Boys, NWA e Public Enemy, anche di De La Soul e A Tribe Called Quest: si va oltre la barriera del suono conosciuto, ci sono linee ed emotività melodiche soul che si insinuano o galleggiano sopra i campionamenti ritmici, e la presenza di due grandi cantanti come Shara Nelson e del veterano jamaicano Horace Andy rendono le parti vocali di livello stellare.

Quando il disco è stato rimasterizzato nel 2012, Myles Raymer su Pitchfork l’ha descritto così: «Ascoltare l’album di debutto dei Massive Attack 21 anni dopo la sua uscita è come leggere un vecchio romanzo di William Gibson che descrive il futuro prossimo – che è il presente ora – con una precisione inquietante». Con quei suoni inediti, con quella maniera fratturata di alternare beat e parti vocali, con le tessiture sintetiche che evocano temperature tese e spesso inquietanti, con lampi distopici, “Blue Lines”, come tutti gli album che predicono, come tutte le band che hanno uno sguardo che va al di là dell’orizzonte e che vedono dove nessuno ha ancora poggiato lo sguardo – pensate ai Talking Heads, ai Radiohead – descrive un futuro che ancora non c’era, ma è il nostro, adesso. 

Tutto questo non può che nascere in un contesto particolare: il luogo è Bristol, sudovest dell’Inghilterra, sul fiume Avon, dove la inner city, il quartiere di St. Paul’s in particolare, è un melting pot tipicamente inglese, con la presenza di una grande comunità caraibica, le gigantesche pile di altoparlanti dei sound system che percorrono le strade e creano momenti di incontro e aggregazione al suono del reggae e del dub. Bristol è una città rilassata, un po’ addormentata, ma quando sale al governo la Tatcher e nel 1980 la polizia fa inutilmente irruzione nel Black & White Cafè, popolare luogo di aggregazione inter razziale in città, scoppia il pandemonio, scontri a fuoco nelle strade. 

È il primo episodio nazionale di scontro dei tanti che si diffonderanno fra giovani e autorità, un episodio eccessivo e un po’ senza senso per la sua brutalità che non ha però seguito, anzi, tutto torna alla norma ma con un senso aumentato di libertà e creatività. La musica è il polarizzatore che crea una comunità di artisti a vario titolo: dj, rapper, pittori, grafici, MC, graffitari. Guardano alla cultura hip hop che viene da New York e la sviluppano in salsa inglese. Fioriscono parties e piccoli eventi in locali o anche in case private, alcuni legali altri no. C’ una radio, WBLS, che trasmette black music americana che altrimenti non si troverebbe. Poi c’è il Carnevale (quello jamaicano, a settembre) nel quale tutto questo esplode alla luce del sole. English upbringing, background Caribbean (cresciuti in Inghilterra, retroterra caraibico), come rappano nella title track. Bristol è anche la sede di uno dei gruppi post-punk più interessanti della scena inglese, i Pop Group di Mark Stewart che mischiano il loro punk frenetico con un amore per il jazz, il reggae, il funk: in fondo sia il punk che l’hip hop sono due modi di fare musica in modo istintuale, anche senza essere musicalmente evoluti. Insomma, questa città che non ha una identità musicale sua, la crea mischiando tutti questi elementi, cercando una sintesi. 

Alla metà degli anni 80, fra le tante crews che nascono in città, The Wild Bunch è un collettivo nel quale confluiscono le menti migliori di quella generazione: il nucleo iniziale sono Milo Johnson, Nellee Hooper e Grant ’Daddy G’ Marshall, ma poi si uniscono Andrew ’Mushroom’ Vowles, Adrian ’Tricky’ Thaws e Robert del Naja, l’unico bianco, origine italiana, chiamato 3D per il suo mestiere di illustratore visuale ben conosciuto in città («Mi chiamo 3D, sì, sono inglese», rappa in italiano in ’Blue Lines’). Come lo è anche un altro artista di strada di cui si sentirà parlare molti anni dopo, Banksy.

C’è grande ecletticità nelle ispirazioni – multiculturalismo e attivismo politico, le west indies si mischiano con la house di Chicago, l’hip hop e il toasting al dub. Il sound system è lo spunto per unire talentuosità diverse, che creano una via inglese al rap. La stessa fluidità sarà poi una caratteristica dei Massive Attack, gruppo estremamente collaborativo dentro e fuori il perimetro, che sceglieranno di affidare le parti vocali a membri esterni e perfettamente contestualizzati. In un bel documentario sul making di “Blue Lines” (www.youtube.com/watch?v=pt2e4wv7Q_o ) Mark Stewart tira le somme: «Sentire “Blue Lines” era come passeggiare per strada a Bristol con tutti questi suoni diversi che ti arrivavano da tutt’intorno. E loro non l’hanno tirato a lucido, è reale. Fucking real!». Quelli del ’mucchio selvaggio’, che sui dischi diventerà la loro etichetta, sono originatori, quel tipo di musica e di scena a Londra non esiste ancora.

Quando la Island, con la sua sussidiaria americana di tendenza 4th & Bway gli offre un contratto, sembra inevitabile spostarsi nella metropoli, e qui c’è una prima questio, 3D e Daddy G preferiscono il clima più tranquillo di Bristol alla frenesia londinese. Il punto di rottura arriva poi poco dopo, quando nel 1987 un tour giapponese invece di unirli li fa deflagrare, per motivi personali. Tornati a casa, Milo parte per NYC, Nellee Hooper va a Londra formare con Jazzy B i Soul II Soul, che nell’89 avranno un successo clamoroso col primo album “Club Classics Vol.1”, la prima prova provata di quanto questo nuovo suono funzioni. È il disco che fa parlare per la prima volta di Bristol. Per gli altri il momento non è ancora arrivato. 

Nel frattempo, nel 1989 esce anche il primo album di Neneh Cherry, figliastra del grande jazzista Don, che dopo un’esperienza con un altro gruppo post-punk cittadino, i Rip Rig & Panic, pubblica “Raw Like Sushi”, a cui collaborano anche Mushroom e 3D. È lei, insieme al suo co-autore e neo-sposo Cameron McVey (nome d’arte Booga Bear, co-produttore di alcuni brani di “Blue Lines”) che li spinge oltre la loro indole rilassata, li aiuta economicamente e addirittura trasforma la cameretta della sua bambina in una sala-studio per i primi demo. Daddy G: «Eravamo dei pigri coglioncelli bristoliani. È stata Neneh a prenderci a calci in culo e farci registrare. Molto a casa sua, nella camera della bambina. Ha puzzato per mesi e alla fine abbiamo trovato un pannolino sporco dietro un radiatore. Facevo ancora il dj, ma quello che cercavamo di fare era creare dance music per la testa, piuttosto che per i piedi».

È sulla forza del primo demo che fanno girare che ottengono un contratto dalla Circa/Virgin, s’era creata una bella fila pronta a offrirgliene, e portato a termine diventa il primo singolo, quello che setta l’asticella e delinea il suono: «Daydreaming’ descrive perfettamente chi siamo», ha detto Tricky a Rage Magazine, «Se Daddy G e io rappassimo sul picchiare la gente o sparare non saremmo noi. Ho anche provato a scrivere dei rap aggressivi, ma alla fine non sono io, il rap vuole dire fare arrivare la tua personalità». Esce a metà ottobre 1990, e ’Daydreaming’, campionamento da ’Mambo’ del tastierista Wally Badarou, ne mostra subito la potenzialità: la voce sognante di Shara Nelson letteralmente galleggia a mezz’aria:

«Osservo, con calma, stando nel mio spazio
Sognando ad occhi aperti
Galleggio nell’aria mentre sogno ad occhi aperti…»..

Mentre 3D e Tricky rappano, quasi sussurrando, miglia lontano dall’idea di rap urlato e aggressivo (il sussurro, come dimostrano altri brani, può essere minaccioso quanto e più del grido). E chiariscono da subito con ironia il loro atteggiamento:

«Guai e problemi non sono il sole che risplende nella mia vita
I furbi si proteggono portando un coltello
Non dovrebbero esser mai nati, mi fanno sbadigliare
Ma io me la prendo comoda, è una domenica mattina…
Per cui vieni ad accendere il mio fuoco, guarda il mio Akai rig andare
Perché il mio Akai rig fa boom boom boom…».

E dopo aver citato Stevie Wonder e Doors e la consolle della Akai, cita anche i Beatles

«L’amore che prendi è uguale all’amore che fai
Ecco che arriva il sole, amore mio, ecco il sole…».

 

Il secondo singolo arriva a febbraio ’91, ed è quello che mette definitivamente sulla mappa i Massive (per un periodo l’Attack viene mollato per non creare male interpretazioni in tempo di Guerra del Golfo), capolavoro soul anni 90 che finisce in tutte le liste delle migliori canzoni di sempre, a cominciare dal Brit Award di quell’anno. Lo scrive la Nelson e lo incide col produttore Jonathan ’Jonny Dollar’ Sharp, lasciando poi agli altri il compito di arricchirlo e di costruirci sopra, cosa che fanno con la ritmica di ’Parade Strut’ del trombonista jazz JJ Johnson e il ’hey hey hey hey’ di ’Planetary Citizen’ della Mahavisnu Orchestra (a proposito di gusti eclettici!). ’Unfinished Sympathy’, all’inizio uno scherzo sulla ’Unfinished Symphony’ di Shubert, ha un tiro senza sosta, ben esemplificato dal video, un lungo piano sequenza di Shara che cammina determinata con passo veloce per downtown Los Angeles in mezzo a scene di vita quotidiana – ubriachi, paraplegici, gang, bikers – ma il tema è amore non corrisposto, struggente e interpretato con un pathos che è tipica materia soul, sentimento poco frequentato nel hip-hop:

«So di aver immaginato l’amore prima
E come potrebbe essere con te
Mi hai fatto male, baby, proprio ferito, baby
Come può esserci un giorno senza la notte?».

È un brano che arriva alto in classifica, per un pubblico molto più vasto, avvolto e sottolineato da un magnifico arrangiamento d’archi di Wil Malone inciso ad Abbey Road (per pagare i costi, impensabili per loro abituati a produzioni DIY, han dovuto vendersi anche l’automobile). 

Qualche mese dopo arriva l’album, e il panorama dei territori esplorati si completa. La sensazione è quella di entrare in un tunnell sonico e vocale in cui non solo ci sono elementi musicali disparati, ma anche stati emotivi che si spostano, spesso apparentemente calmi ma sotto la prima superficie inquieti, turbolenti.

’Safe From Harm’ apre con una potenza sonora a cui è impossibile resistere: un basso muscolare + batteria presi da ’Stratus’ di Billy Cobham, una seconda batteria che più funky non si può campionata da ’Good Old Music’ dei Funkadelic, bacchette impugnate da Tiki Fulwood. 3D: «Con un loop ritmico come quello non puoi sbagliare. Anche senza parti vocali, lo senti e fai ’yeah!’. Ha un groove totale. Rappresenta anche la maniera di prendere quattro battute dal disco di qualcuno, rubarlo, metterlo in loop, quella maniera anarchica di costruire la canzone da un beat che era la cifra di allora». 

Il clavinet da ’Chamaleon’ di Herbie Hancock è lo stacco fra le strofe, ma quella sottile linea di tastiere che scivola dentro subito all’inizio e si porta il brano fino alla fine sembra l’arrivo degli alieni, segna subito il territorio come sinistro. Non a caso ispirato è da Taxi Driver, paesaggio urbano notturno e pericoloso. Le parole di Shara potrebbero essere le stesse di mohawk De Niro a proposito del suo amore e ossessione, la baby prostituta Jody Foster: 

«Rockers di mezzanotte
Imbroglioni urbani
Pistoleri e maniaci
Tutti appariranno nel freak show
E non ci posso fare nulla,
Ma se farete del male a quello che è mio
Diavolo se mi vendicherò
Potete liberare il mondo, potete liberare la mia mente
Solo a patto che la mia baby sia al sicuro, stanotte».

Esce dalle mie casse a tutto volume con una potenza che ancora ti prende il respiro, il basso ti si muove dentro e ti solleva il diaframma (con i Massive lasciate perdere gli MP3, sentitelo su uno stereo serio, magari un sound system, ed entrerete in altre dimensioni), la voce tesa e protettiva-vendicativa di Shara ti fa girare e guardare se non arrivi nessuno alle spalle, esattamente come sussurra 3D:

«I was lookin’ back to see if you were lookin back at me
To see me lookin back at you».

(Stavo guardando indietro per vedere se tu mi stavi guardando
Mentre io guardavo all’indietro verso di te)

Anche l’inno alla monogamia di ’One Love’ interpretato dalla voce androgina del grande Horace Andy, connessione diretta con il mitologico dello Studio One di Kingston, è inquieto. Il tempo sotto scandito e condito da uno scratch e dai synth che fanno la vece dei fiati, è una dichiarazione a dispetto di tutto, a cominciare dal clima di apocalisse dub che copre il cielo. Solo alla fine scompaiono tutti i campionamenti, e per un attimo torna il sereno:

«Sei tu che amo e non un’altra
E so che il nostro amore durerà per sempre
Alcuni non si sentono sicuri se non hanno una donna per braccio
Devono provare che hanno fascino
Dicono non lasciare tutte le tue uova in un solo cestino
Se casca, tutte le uova si romperanno.
Ma io credo in unico amore, ragazza,
In un solo amore».

’Blue Lines’ racconta la loro storia, e scivola via con una ritmica da acid jazz, solleva lo spirito e il ritmo, sfociando nell’unica cover, voluta da Daddy G, il suo amore per la soul degli anni 70 dichiaratamente infinito: “Be Thankful For What You’ve Got”, già un hit nel 1974 di William DeVaughn, a parte un pò di scratch e qualche spruzzo di campionamenti non è molto dissimile dall’originale, l’Hammond a scaldare il giudizio severo per chi vuole cose che non può avere. La parte vocale affidata a Tony Bryan è in puro stile Philly Soul, fra calore e falsetto:

«Anche se non guidi una Cadillac bella grande
Diamanti sul retro, tetto apribile
Godendoti la scena
Con un taglio da gangsta
Fiancate bianche da gangsta
Antenne tv sul retro
Magari non hai neanche una macchina
Ma ricordate fratelli e sorelle
Potete ancora andare a testa alta
Siate solo grati di quello che avete».

’Five Man Army’, simile all’omonimo brano del rapper jamaicano Dillinger, ha un ritmo funkissimo, controtempi e basso che pompa, jam vocale in pieno stile dub a cui partecipano tutti, l’amico Willy Wee e 3D, Tricky e Daddy G, i coretti di Andy sullo sfondo, e una citazione dei suoi hit originali, ’Cuss Cuss’ e ’Money’, «denaro denaro denaro, la radice di ogni male». Un basso gigantesco e scratch per ’Lately’, prova vocale d’autore di Shara Nelson, e a chiudere i (soli) 45’ ’ Hymn Of The Big Wheel’, la grande ruota dell’esistenza, una riflessione sulla vita da padre a figlio, che anticipa i temi che soprattutto 3D introdurrà sempre più negli album successivi, anti-militarismo ed ecologia, giustizia e umanità.

“Blue Lines” alla sua uscita, a parte la caterva di riconoscimenti, non diventa pervasivo immediatamente. Forse quel clima a volte a volte crepuscolare a volte claustrofobico, anche se in modo malinconico, non acchiappa subito, forse tiene distante il grande pubblico la potenza dei backbeat. Manca l’euforia, la solarità, anche se c’è tanta emotività e vulnerabilità. E forse distrae anche questo concetto di una non-band, con cantanti esterni che si alternano, un collettivo nel 1991 è più difficile da abbracciare di un gruppo con una sua identità ben precisa. 

Ma appena il sound viene digerito, come si diceva all’inizio, crea il template per la musica degli anni seguenti, che diventa onnipresente. Tutti noi abbiamo decine di compilation degli anni 90 di trip-hop, o down tempo, o musica elettronica da chill-out. A seconda di come verrà definita. I Massive collaboreranno con e influenzeranno tanti, da Bowie a Madonna.

La cosa particolare è che i Massive Attack inventano un genere prima ancora che si trovi un’etichetta per definirlo. Loro all’inizio, in mancanza di meglio e considerando la sua radice nel soul americano e il rocksteady/reggae jamaicano la chiamano ’minimalist lover’s hip-hop’. Il termine trip-hop, ovvero un hip-hop rinforzato, come gli aperitivi, melodicamente arricchito, verrà coniato solo nel 1974. Ma per almeno un lustro e anche più lo si sentirà ovunque. Spesso nella versione sbiancata e patinata del chill-out o della ambient lounge, quella che sarcasticamente viene definita ’musica per le lobby degli hotel stilosi’. 

Gli originatori, ovviamente, erano altra cosa: qui il progetto, più spontaneo che studiato, era quello di abbattere le barriere, di rappresentare le inquietudini di un secolo che si stava chiudendo. I dischi successivi, rari – e in alcuni casi, come “Mezzanine”, altri capolavori – ci accompagneranno verso il nostro futuro/presente che si fa di anno in anno più incongruente e complesso e claustrofobico.

In fondo, i social nel 1991 non c’erano, internet nemmeno: se vedete gli spettacoli dei Massive degli ultimi anni, ormai solo Robert del Naja e Daddy G a mantenere vivo il nucleo e a inscenare consapevolezza sociale e politica, sono la rappresentazione di quello che è realisticamente la nostra Matrix. Tricky, che ha defezionato dopo il secondo “Protection”, è andato in una direzione che ancor più rappresenta il lato oscuro del collettivo iniziale. E “Blue Lines” è un anticipatore che è perfettamente attuale ancora ora.

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