La grande lentezzaLa melina di Letta sul Quirinale e l’inaspettata centralità del Cavaliere

Il segretario dem non vuole esporsi sulla corsa al Colle, ma deve darsi una mossa e far capire che Draghi resterà a palazzo Chigi per il bene del paese. E deve riconoscere che il principale interlocutore del suo partito si chiama Silvio Berlusconi

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Sulla Grande Corsa al Colle, Enrico Letta dice di non volersi esporre in questa fase. Ma allora perché dice che Mario Draghi deve restare a Palazzo Chigi fino al 2023? Non è forse un’indicazione obliqua per toglierlo dalla Grande Corsa? Cos’ha in mente, il segretario?

Ecco, anche nel Partito democratico, a un mese e mezzo circa dalla prima seduta dei grandi elettori a Montecitorio, comincia a serpeggiare una certa impazienza, un bisogno di capire come ci si muoverà, un invito a discuterne nelle sedi giuste (ammesso che nel Partito democratico ancora ci siano).

Andrea Marcucci, il più distante dal segretario, gli ha chiesto di uscire da questo splendido isolamento e iniziare a fare politica, e in effetti pare che qualche primissimo movimento ci sia stato.

Il punto che il Nazareno deve assimilare fino in fondo è che il suo interlocutore si chiama Silvio Berlusconi, anche in questo caso (la prima volta fu nell’altro secolo, nel 1999, quando Walter Veltroni lo aggirò accordandosi con Gianfranco Fini sul nome di Carlo Azeglio Ciampi). E già, perché l’ottantacinquenne capo di Forza Italia ha di fatto già messo nel sacco i giovani Matteo Salvini e Giorgia Meloni, a dimostrazione che quando si tratta di fare politica i sondaggi non contano veramente niente.

Se la leader di Fratelli d’Italia non toccherà palla a causa della sua marginalità in una vicenda istituzionalmente decisiva come quella del Quirinale, c’è da dire che il leader della Lega, peraltro piuttosto spento in questa fase, ha ben poco da offrire, non avendo né truppe importanti né tantomeno nomi quirinabili nella sua parte politica.

E poi, scusate se è poco, c’è il fatto che il Cavaliere come al solito ha fregato tutti sul tempo e ha sul suo nome già diverse centinaia di grandi elettori: secondo alcuni calcoli che si fanno in Transatlantico, Berlusconi avrebbe non meno di 400 voti a suo favore. Il che non gli consentirebbe di salire al Colle (già molte settimane fa abbiamo scritto perché egli non diventerà mai presidente della Repubblica) ma di giocare il ruolo che tanto gli piace, quello di king maker dal quarto scrutinio.

Naturalmente nessuno sa a quel punto quale nome tirerà fuori dal cilindro (Pierferdinando Casini, Giuliano Amato, un altra figura di centro) ma fin d’ora è chiaro che il segretario dem dovrà discutere con lui (tra l’altro con il possibile bizzarro caso di una trattativa sullo zio del leader dem, Gianni Letta), altro che Salvini e Meloni: i giovani si accoderanno.

Trattare con Silvio Berlusconi non è una cosa facile. Il suo vantaggio è che ha diversi nomi da spendere mentre il numero uno del Partito democratico no. Occorrerà dunque da parte di quest’ultimo una grande duttilità e anche fantasia.

Come sette anni fa dimostrò di avere Matteo Renzi proprio al tavolo con il Cavaliere, quando a sorpresa tirò fuori il nome autorevole e indiscutibile di Sergio Mattarella: una scena che potrebbe ripetersi anche a gennaio, se il nostro Capo dello Stato dovesse rendersi conto che per salvare il Paese sarebbe indispensabile un suo bis.

Prima di tutto, però, sta a Letta muoversi per tempo prima che lo faccia l’odiato Renzi e poi essere coerente con se stesso. Togliendo Mario Draghi dalla Grande Corsa, non con formule allusive ma facendo capire chiaramente che i parlamentari del Partito democratico hanno compiuto una diversa scelta, quella di mantenere e se possibile rafforzare il premier a palazzo Chigi almeno fino al 2023, se non oltre. Che poi, guarda caso è la stessa posizione di Silvio Berlusconi, l’uomo che ha le chiavi del Colle mentre il segretario del Partito democratico è atteso alla prova più complicata della sua esperienza politica.

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