Sulla Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio 2022 è stato pubblicato un decreto del Presidente della Repubblica con cui «su proposta del ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale… è conferita l’onorificenza Commendatore dell’Ordine della «Stella d’Italia», con facoltà di fregiarsi delle insegne dell’ordine» a «Evtukhov dott. Viktor Leonidovich» e a «Kostin dott. Andrey Leonidovich». I destinatari del prestigioso riconoscimento sono rispettivamente il sottosegretario di Stato al Ministero dell’Industria e Commercio Estero della Federazione russa, e un banchiere e oligarca accusato di corruzione da Alexei Navalny.
Con analogo decreto, il 28 maggio 2020, sempre su proposta del capo della Farnesina, era stata conferita la superiore onorificenza di Cavaliere di Gran Croce – mica solo di Commendatore: grandi oneri e grande onore! – dello stesso ordine al primo ministro russo Mikhail Mishustin e al ministro dell’Industria e Commercio Estero Denis Manturov.
Non sfugge a nessuno che, nella prassi diplomatica, commendatorati e cavalierati non sono ricompense di benemerenze personali, ma dichiarazioni pubbliche di solidarietà politica, che, quando riguardano direttamente esponenti di un governo o di un regime estero, certificano qualcosa di più profondo di una proficua collaborazione istituzionale.
Si ricorderà quanto sconcerto e indignazione suscitò in Italia il riconoscimento della Legion d’Onore ad al Sisi da parte di Emmanuel Macron, sia per l’ostruzionismo riservato alle autorità giudiziarie italiane nell’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, sia, più in generale, per la natura liberticida del regime egiziano.
Bisogna prendere atto che nessuna analoga reazione, – anzi nessuna reazione in assoluto, radicali a parte, hanno invece suscitato i generosi riconoscimenti agli oligarchi della cerchia putinana, così simili alle inchinate che si tributano davanti alle case e alle persone dei boss nelle contrade a dominazione mafiosa, anche e soprattutto nella manifestazione pubblica di amicizia e obbedienza.
Forse però, più che denunciare l’indignazione a geometria variabile di moltissima politica italiana, con differenti pesi e misure a seconda dell’importanza strategica del regime incriminato o incriminabile, occorrerebbe riflettere sulla ragione per cui la cosiddetta amicizia con la Russia e l’indulgenza per il suo regime si sia fatta così stabilmente in Italia pensiero condiviso, in una continuità storica che lega il filosovietismo di fatto delle maggioranze pure ufficialmente atlantiste dell’Italia primo-repubblicana al putinismo attivo e passivo, non revocabile e non negoziabile, dell’Italia post Guerra Fredda.
Anche in questo, la mera cronaca politica rischia di occultare o di tradire la sostanza storica di questo fenomeno. Il ribaltamento del centro-destra “amerikano” in una propaggine propagandistica della macchina del Cremlino è stato oggettivamente impressionante. La trasformazione di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni in una sorta di super-partito “Forza Putin” ha fatto apparire paradossalmente la sinistra post-comunista più affidabilmente atlantista di quella destra liberal-conservatrice, che si vantava di avere combattuto la Guerra Fredda dalla parte giusta della storia.
Però il risucchio di quel che resta della tradizione conservatrice nel gorgo nazionalista non è certo fenomeno solo italiano e ovunque riporta alla centrale moscovita o a una convergenza di interessi con il Cremlino i vari agenti del caos anti-liberali del sovranismo occidentale. In questo Berlusconi e Salvini non sono stati così diversi da Donald Trump.
Ma in Italia non è solo salvianian-berlusconiana l’idea che la stabilità dei rapporti con la Russia e il rispetto dei suoi interessi strategici, delle sue aree di influenza e del suo “spazio vitale” costituisca, di per sé, un fattore di stabilità della democrazia italiana ed europea. Che non bisogna infastidire il Cremlino con pretese incompatibili con la cultura politica russa non lo dicono tutti, perché qualcuno pudicamente se ne vergogna, ma lo pensano tutti e questa persuasione resiste stolidamente all’evidenza delle guerre ibride e convenzionali che il Cremlino ha disseminato attorno e dentro ai confini dell’Europa.
L’espansionismo russo continua a essere letto non come una strategia di dominio, ma come una reazione, tutto sommato comprensibile e legittima, all’accerchiamento euro-atlantico. Per cui alla fine, nella politica italiana suscita più imbarazzo l’europeismo ucraino dell’imperialismo nostalgico di un colonnello del KGB, che ha il progetto dichiarato di distruggere l’Unione europea.
In questo quadro, pure la dipendenza energetica italiana ed europea dalla Russia non viene vista come un problema da affrontare e superare, ma come il suggello di un’amicizia obbligata e di una alleanza necessaria. L’Italia, tutta l’Italia politica, rispetto alla Russia è in piena sindrome di Stoccolma.
Così proprio mentre Putin mostra senza più nessuna inibizione il vero volto del regime sia all’interno (la chiusura di Memorial, la tumulazione di Navalny in una colonia penale, una repressione capillare e senza quartiere di ogni opposizione), sia all’esterno (con il piano di invasione dell’Ucraina) e il mondo attende col fiato sospeso gli esiti del braccio di ferro con Joe Biden, il ministro Luigi Di Maio, fiero di interpretare l’unanime sentimento della nazione, continua ad appuntare spillette onorifiche al petto degli uomini dell’avvelenatore in chief del Cremlino, in mezzo a silenzi che suonano come applausi.