Inside BudapestOrbán si gioca la rielezione con la solita campagna sovranista e omofoba

Il 3 aprile in Ungheria si vota per rinnovare il Parlamento e su un referendum introdotto dal governo riguardo il divieto sulla presunta propaganda Lgbt: per leggi come questa. Il premier ungherese corre per il quarto mandato

AP/Lapresse

«Proteggeremo le nostre famiglie: un padre è un uomo, una madre è una donna e lasciate stare i nostri figli». Non è Giorgia Meloni, è Viktor Orbán. Il virgolettato ha lo stesso ritmo della hit della leader di Fratelli d’Italia, ma soprattutto gli stessi contenuti: una difesa della tradizione sovranista ed escludente. Su questo ritornello il primo ministro ungherese si gioca il quarto mandato, tanto da aver convocato nello stesso giorno delle elezioni – il 3 aprile – un referendum sulla legge, voluta dal suo governo e contestata dall’Unione europea, contro una «propaganda Lgbt» che non esiste.

«Vinceremo e fermeremo ai confini dell’Ungheria la follia gender che serpeggia nel mondo occidentale», ha tuonato Orbán davanti a centomila persone. In queste frasi c’è tutta l’ideologia di Fidesz, il partito tornato al potere del 2010 e confermato a stragrande maggioranza nel 2014 e nel 2018.

Le frontiere da chiudere, ieri ai migranti oggi alle idee libertarie, la retorica populista del «noi» contro un «loro» altrettanto variabile. Toni di guerra, ma il comizio era in occasione della «Marcia della pace», in ricordo della sollevazione del 1848 contro il dominio asburgico.

Le parole gli sono valse l’endorsement dell’ex presidente americano Donald Trump, con il caps lock a enfatizzare le virtù teologali del sovranismo: forza, furbizia, amore per la propria gente. Trump ha caldeggiato la rielezione come necessaria «ora più che mai». Se non bastasse il sostegno esplicito di un golpista, o le ambiguità sulla Russia – con la neutralità sbandierata a quel comizio mentre i premier di Repubblica Ceca, Polonia e Slovenia erano sul treno per Kiev – di uno degli ultimi leader europei ad andare in visita al Cremlino, c’è una campagna elettorale referendaria fondata sulle menzogne.

È cominciata con uno spot dove si evocano le terapie per cambiare sesso. Ci sono una bambina e sua madre. «Come è andata la verifica di matematica?», la figlia risponde che è stata sostituita da una lezione sull’orientamento sessuale. «Ci sono maschi che sono femmine e femmine che sono maschi, mi hanno detto che anche io potrei diventare un maschio, se volessi». La mamma è terrorizzata, si chiude sul sottotitolo: «Siete a favore della promozione di terapie per cambiare sesso ai minorenni?» È anche il surreale quesito sulla scheda del referendum.

La stretta liberticida che equipara l’omosessualità alla pedofilia viene messa ai voti, nascosta sotto questa formula. Arriva dopo anni di restrizioni di diritti fondamentali come l’aborto. Per l’Unione europea è una norma illegale. Se Orbán la sottopone, sotto mentite spoglie, alle urne è anche per simulare una patina di legittimità nello scontro con Bruxelles, specie dopo la bocciatura della Corte di giustizia dell’Unione europea al ricorso, condiviso da Budapest con la Polonia, contro il meccanismo che vincola l’erogazione dei fondi comunitari al rispetto dello Stato di diritto.

Sono congelati 7,2 miliardi di euro del Recovery fund. La faglia con l’Europa si allarga, ma stavolta la retorica di un «nemico» a cui attribuire i fallimenti della classe politica corrotta potrebbe non bastare. Negare i valori alla base dell’Unione europea costa, rischia di bloccare sovvenzioni che pesano fino al 5% del Pil ungherese.

Oltre alle sintonie del passato, la cautela di Orbán sulle sanzioni alla Russia si spiega anche con la paura di ripercussioni sul costo della vita. Con un vantaggio nei sondaggi di pochi punti sull’opposizione unita, il leader di Fidesz non può permettersi il malcontento per l’aumento del prezzo dei carburanti.

È anche sull’economia, infatti, che punta la coalizione democratica – data in calo al 37% nei sondaggi – per battere Fidesz. Quando Orbán è salito al potere, il tasso di conversione della valuta locale era 269 fiorini per un euro, oggi ne servono 373. È la svalutazione peggiore all’interno del Gruppo di Visegrad, che l’invasione dell’Ucraina ha contribuito a spaccare, isolando l’Ungheria. Il tasso è di poco migliore di quello della moneta dello Zimbabwe, attacca l’opposizione.

I livelli di consenso attribuiti agli sfidanti sono un mezzo miracolo nell’ecosistema ungherese, definito «il più avanzato modello di condizionamento dei media mai sviluppato all’interno dell’Unione europea» dall’ultimo rapporto dell’International Press Institute (Ipi).

Oligarchi vicini a Orbán controllano le maggiori testate d’informazione, tra carta, radio e televisione. Le scalate sono state facilitate dal governo e foraggiate dalle banche statali, mentre la commissione «indipendente» negava fusioni e licenze ai media indipendenti. Le stazioni locali e regionali sono tutte satelliti dell’esecutivo, un po’ di libertà resiste solo su internet, che ha però una penetrazione scarsa fuori dalle città.

Il risultato è che al leader dell’opposizione, Peter Marki-Zay, la tv pubblica non ha concesso nemmeno un minuto di agibilità. «Putin e Orbán appartengono allo stesso mondo autocratico, repressivo, povero e corrotto – ha dichiarato Marki-Zay al New York Times –. Dobbiamo scegliere l’Europa, l’Occidente, la Nato, la democrazia, lo stato di diritto, la libertà di stampa. Un mondo molto diverso: il mondo libero». La sua visione su temi come il matrimonio omosessuale, l’interruzione di gravidanza e il divorzio, però, non è così distante da quella dell’avversario.

È la stessa, ispirata alla linea della Chiesa cattolica. La differenza è che Marki-Zay, a differenza di Orbán, non pensa che questa visione del mondo debba essere scolpita nella legge. Ha vissuto dal 2006 al 2009 negli Stati Uniti, in Indiana, e il New York Times lo equipara a un repubblicano vecchia scuola. «Non possiamo costringere il resto della società – spiega al quotidiano americano – una grande differenza tra l’Occidente e certi Paesi islamisti è che la chiesa non detta la vita quotidiana».

Il riferimento all’Islam non è casuale. Da sinistra, sono convinti che Marki-Zay porti avanti messaggi progressisti con un linguaggio conservatore. Dobbiamo tenere presente queste specificità per l’Ungheria. Forse è l’unico modo che ha il candidato per fare breccia in una nazione dove i cittadini, come ha fotografato l’Eurobarometro, sono al primo e al quarto posto in Europa per l’importanza attribuita, rispettivamente, all’«identità» e ai «valori fondamentali».

Una nota conclusiva. Il testo della legge liberticida al centro del referendum è stato scritto da Jozsef Szajer, ex europarlamentare e tra i fondatori di Fidesz, fedelissimo di Orbán. È caduto in disgrazia dopo l’arresto a Bruxelles, nel 2020, per aver violato le restrizioni anti-coronavirus, partecipando a un festino gay con altri 24 uomini. Chissà come voterà il 3 aprile.

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