«Il reporter di guerra non è quello che va sempre in trincea o nel punto più vicino possibile all’esplosione. È pur sempre un giornalista che deve provare a raccontare il più possibile e nella maniera più approfondita possibile quello che sta accadendo in un teatro di guerra: è un giornalista che ha un punto di osservazione molto vicino a eventi pericolosi e deve saper gestire quei momenti, quelle ore, quei giorni per raccontare, a chi è distante, quello che non può vedere e che altrimenti non potrebbe conoscere».
A parlare è Nello Scavo, giornalista di Avvenire. Alle spalle ha un’esperienza trentennale, avendo iniziato a fare l’inviato di guerra nei Balcani, negli anni Novanta.
Da quando è cominciata la guerra in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, giornali e tv di tutta Europa hanno rimesso al centro del racconto i reporter di guerra. Per diversi anni, questi corrispondenti si sono mossi in territori remoti e distanti, raccontando anche conflitti con minor visibilità e minore attenzione da parte di lettori e spettatori.
Dal Portogallo al Regno Unito, dalla Grecia alla Danimarca, passando ovviamente anche per l’Italia, gli inviati delle testate internazionali, ma anche tanti giornalisti freelance, hanno raggiunto l’Ucraina. La guerra è stata coperta con articoli, servizi televisivi, ma anche podcast, newsletter e altri prodotti giornalistici. Con tutti i rischi – e gli accorgimenti – del caso. Perché il reporter di guerra si muove sul terreno, è in prima linea nel raccontare cosa avviene là dove i accadono i fatti.
In prima linea
«Dal punto di vista emotivo, non ti prepari mai abbastanza, io diffido dai colleghi che si esaltano quando ci sono esplosioni e polvere da sparo», dice Nello Scavo, ricordando che un reporter di guerra deve comunque preoccuparsi di raccontare un conflitto dando ai lettori – o spettatori – notizie inedite dal fronte, notizie altrimenti irraggiungibili.
«Quando eravamo a Kiev, pochi giorni prima dell’invasione, alcune fonti ci dicevano che lì non sarebbe successo nulla, qualcuno ha suggerito di andare in Donbass, qualcuno ci è andato. Ma io e altri colleghi con un po’ di esperienza abbiamo deciso di stare nella capitale perché abbiamo pensato che la notizia l’avremmo avuta se ci fosse stata una guerra a Kiev. Il 24 febbraio, dopo alcuni giorni sul posto, ci siamo ritrovati al centro della storia mentre si faceva, al posto giusto al momento giusto. Partendo da una rinuncia».
Una volta nel pieno del conflitto, bisogna però sapersi muovere in uno scenario diverso dalla quotidianità. «Non è vero che la scelta più efficace o migliore sia quella più pericolosa», dice Scavo. «Nel mio lavoro di reporter devo avere un buon punto di osservazione per poter raccontare i fatti, ma devo avere anche la certezza di poter produrre un articolo e inviarlo in redazione. Perché se sono in una situazione in cui non posso nemmeno aprire il computer non sto facendo bene il mio lavoro».
Insomma, stare in trincea, tra gli spari, con il rischio di perdersi tutto il resto, potrebbe non essere la scelta migliore in termini professionali: o quel punto di osservazione è indispensabile per raccontare un evento, oppure rischia di diventare controproducente. La tentazione è quella di spingersi sempre un po’ più in là, ma a volte, in una guerra, fare un passo in meno ti permette di avere una visione d’insieme migliore.
È un concetto che esprime anche Andrea Sceresini, giornalista freelance che ha trascorso diversi giorni tra Kiev e altre città ucraine sin dal 2014. «Bisogna essere sempre attenti a capire come cambia il contesto intorno a noi», dice.
È importante, ad esempio, capire come arrivare in alcuni posti e come andarsene: se saltano le vie di collegamento o si presenta un ostacolo che non permette di spostarsi, si rischia di non poter portare a termine il lavoro. «Non dimentichiamo che restare bloccati in un posto, in una condizione non agevole, potrebbe significare esaurire lo spazio di archiviazione per le immagini e i video, per chi lavora con questi strumenti», aggiunge Sceresini. «O semplicemente esaurire i contanti, cosa che potrebbe rendere la vita difficile se dovessero saltare i bancomat. Tutto questo aggiungerebbe ulteriori preoccupazioni in un momento in cui la tensione è già alta».
Sceresini conosce bene l’Ucraina, Kiev e anche il Donbass, zone che aveva già raccontato negli ultimi otto anni, cioè dall’annessione della Crimea alla Russia e dalla proclamazione delle repubbliche indipendentiste a Donetsk e Luhansk.
Ma per molti suoi colleghi potrebbe essere stato più complicato: spesso i reporter di guerra vanno in un luogo che non hanno visitato prima o di cui non conoscono la lingua. Generalmente, in questi casi, si affidano a un fixer, cioè una persona locale che accompagna il reporter, fa da guida e magari da traduttore. Può anche aiutare a reperire contatti, storie, fornire indicazioni. Potrebbe essere un giornalista locale, un comune cittadino, perfino un poliziotto o un militare, in casi particolari.
«Il fixer è di grande aiuto quando non sai come muoverti, ti porta in posti che altrimenti non raggiungeresti», spiega Sceresini. «Può essere un fattore limitante però se hai delle idee meno mainstream o non hai bisogno del tipo di aiuto che può fornirti quella persona in particolare».
Il lavoro dei reporter di guerra si distingue anche in base alla testata giornalistica di riferimento. Un grande network televisivo, che ha l’esigenza di inviare immagini che facciano da copertura ai servizi e dei brevi interventi dei giornalisti sul posto, può accontentarsi di farsi guidare da un fixer e magari perlustrare solo le zone più sicure, muniti di elmetto e giubbotto antiproiettile con la scritta “Press”.
Discorso diverso per un freelance alla ricerca della storia più forte e d’impatto: in questo caso, muoversi e perlustrare è un elemento indispensabile del lavoro, sempre facendo la massima attenzione a quel che accade intorno.
Uno dei problemi che segnalano molti reporter più anziani è la difficoltà – o lo scarso interesse – dei giornali nel formare i giovani reporter. La crisi dell’editoria e la velocità con cui oggi viaggiano notizie, informazioni, immagini e video sembrava aver convinto molte testate a non inviare i giornalisti nei teatri di guerra. L’Ucraina sembra aver invertito questa tendenza.
Il kit del reporter
Negli ultimi anni sono stati organizzati diversi corsi per formare i reporter di guerra: dalla Newsroom Academy, corso di giornalismo di reportage di Daniele Bellocchio, al War Reporting Training Camp fondato da Ugo Lucio Borga e Cristiano Tinazzi.
«Sono corsi validi se immaginati come un momento di confronto con persone che il reporter di guerra l’hanno già fatto in passato. Possono essere di supporto a un giornalista, sicuramente. Però un conto è una lezione e un conto è trovarsi sul campo. Vale lo stesso per la cronaca nera: ci si può preparare a lungo, ma trovarsi davanti a un cadavere o in un obitorio cambia completamente la percezione», dice Nello Scavo.
Prima di andare sul posto, in un luogo di conflitto, è indispensabile munirsi degli strumenti giusti. Un reporter che si reca in una zona di guerra non può fare a meno di un kit di primo soccorso, giubbotti antiproiettile, elmetto. E non solo. In una puntata del podcast Stories, la giornalista Cecilia Sala ha raccontato che durante i giorni trascorsi in Ucraina portava sempre con sé «crackers, formaggio già affettato, mango essiccato, una confezione di riso che si cucina anche con un bollitore in albergo, il caffè solubile».
Andrea Sceresini aggiunge anche altri elementi: «Ci sono cose che devi imparare a capire praticamente subito: dove sta il bunker, dove trovare il cibo e l’acqua, come ricaricare i tuoi dispositivi, quindi smartphone e computer. Poi avere una scheda telefonica locale può fare la differenza, e ovviamente anche un powerbank o qualsiasi cosa che possa tenere in vita il tuo cellulare più a lungo possibile. Infine cambiare tanti soldi in valuta locale, perché non puoi rischiare di restare a secco nel caso in cui i bancomat e i pagamenti digitali non siano disponibili».