Un consiglio: chi è dalle parti di Venezia corra a vedere, appena può, l’opera dell’artista franco-svizzero Saype. Merita, prima di tutto. E poi, viste le condizioni meteorologiche, potrebbe sparire a breve (è la bellezza e il destino della land art). Sono due mani immense che si stringono, dipinte su un tappeto d’erba usando pigmenti biodegradabili (sua invenzione) appoggiato sopra un pontone, la piattaforma galleggiante veneziana dove attraccano e partono i vaporetti. Per vederla bisogna salire in cima alla Torre di Porta Nuova dell’Arsenale Nord (è faticoso, ma c’è l’ascensore). È l’ennesima tappa di “Beyond Walls”, il suo progetto cominciato a Parigi nel 2019, quando con la sua monumentale installazione – erano sempre dipinti di mani che si stringevano – aveva dipinto i giardini sotto la torre Eiffel. È stato il primo artista della storia cui è stato permesso farlo, dichiara orgoglioso.
Poi è venuto il resto del mondo, dalla Piazza dei martiri di Ouagadougou (Burkina Faso) alle baraccopoli colombiane, da New York a Ginevra. Ora tocca a Venezia, «città unica per storia e cultura e, soprattutto, per la sua fragilità». Il posto giusto al momento giusto: «l’inaugurazione della Biennale è il contesto migliore per dare forza al mio messaggio». Che è quello della fratellanza, della cittadinanza globale, dell’impegno comune per un mondo migliore e attento all’ambiente. A sostenerlo c’è il Gruppo Lavazza, partner del Public Program del Padiglione Venezia, che da sempre investe in progetti di sostenibilità, sviluppo e sensibilizzazione.
Del resto gli obiettivi sono gli stessi. «Per noi – spiega Francesca Lavazza, board member Lavazza Group – è importante che il marchio sia vicino alle persone. Lo abbiamo fatto durante la pandemia, quando abbiamo sostenuto i bar fino al momento delle riaperture, e lo facciamo adesso, concentrandoci sull’impatto ambientale». Saype – nome d’arte di Guillaume Legros, 33 anni – tra i più noti a livello globale, inserito da Forbes tra le 30 persone sotto i trent’anni più influenti al mondo nel settore Arte e Cultura, ha fatto dell’impegno sull’attualità la sua cifra principale. Lo ha dimostrato con la sua opera del 2018 sul Lago Lemano (una bambina con una barchetta) a sostegno dei volontari di Sos Mediterranée e lo ha ribadito con il progetto “Beyond Walls”, nato come risposta al muro lungo il confine tra Stati Uniti e Messico voluto da Donald Trump e poi evoluto in qualcosa di più grande e, se possibile, più significativo. La serie di strette di mano da riprodurre sull’erba (pare che abbia un database di duemila immagini da cui prendere ispirazione) è destinata a diventare una catena umana, che superi i confini (Beyond Walls, appunto) e unisca il genere umano. All’inizio dovevano essere 30 tappe, presto diventeranno 40 e forse cresceranno ancora. «Adesso andremo a Belfast, per i 30 anni della fine della guerra civile», spiega a Linkiesta.
A questo proposito, il conflitto in Ucraina ha cambiato gli scenari, e lo ha fatto in modo improvviso. Se l’ambientalismo, anche su spinta di personaggi come Greta Thunberg, aveva cominciato a diffondersi su scala globale, nelle ultime settimane si sono registrati passi indietro, con un ritorno di emergenza al carbone e la sospensione dei progetti di cooperazione ambientale. «Non sono un esperto di geopolitica. Certo è che già con la pandemia le cose erano cambiate. La cosa di cui sono sicuro è che, finché si continua così, siamo spacciati. Tutti devono lavorare insieme per risolvere il problema del cambiamento climatico. Occorre una soluzione comune. In generale sono ottimista sul tema, ma per questa situazione mi sento pessimista».
Anche perché l’arte è effimera, come dimostrano i suoi lavori, ma i danni della guerra sono permanenti. Resta il fatto che bisogna continuare a sensibilizzare. Ogni opera, del resto, è un mondo a sé: dal momento dell’ideazione alla sua realizzazione finale «passa un anno». Per quella di Venezia è stato così. «Per dipingerlo mi è servito un giorno intero», ma il trasporto del pontone – sono 30 metri – lungo il Canal Grande, dove sono state fatte le riprese con i droni, «ha richiesto cinque giorni. Nel frattempo l’erba era cresciuta è ho dovuto dipingerla di nuovo».
Sono piccole difficoltà pratiche che, anche aiutato dal suo team (sono amici di infanzia) risolve senza troppi patemi. «Quelle principali invece riguardano la preparazione concettuale. Ogni volta, per ogni opera, sento il bisogno di documentarmi il più possibile per capire la storia, la mentalità, le idee delle persone di ogni luogo. Parlo con filosofi, esperti di geopolitica, mi incontro con gente del posto. Prima di tutto devo capire e questo richiede molto tempo e un grande impegno».
Il risultato sono opere impermanenti – per questo bisogna affrettarsi – lavori che passano, bellezze effimere. Un lascito della sua educazione buddista, ma anche il fulcro del suo agire: è il rovescio del monumento, la negazione del tentativo (a volte disperato) di lasciare qualcosa di sé, tracce del proprio passaggio per i posteri. La lezione che si coglie in cima alla Torre dell’Arsenale, è che quello che deve rimanere – e questa è la sfida che ci impone questa epoca – è il mondo stesso, l’ambiente in equilibrio, vivibile. La migliore opera d’arte possibile e la firma sarebbe di tutti.