The Beatles “Revolver” – 1966
“Revolver”, considerato da molti critici e fan il miglior album in assoluto dei Beatles, è il ponte che collega “Rubber Soul”, l’album in cui cominciano a prender possesso delle potenzialità dello studio e a comporre andando in tante direzioni diverse, con quello che è – per varietà, visionarietà e complessità quello più compiuto, “Sgt. Pepper”.
Tre album in tre anni nei quali i Beatles vanno verso il futuro a una velocità elettrizzante e con una fantasia da fantascienza musicale. Sono gli album, ed è il periodo, in cui la macchina viaggia a pieno regime, in cui sono davvero concentrati su un solo obiettivo, spostare in avanti la nozione di musica rock, e del concetto di 33 giri.
La sensazione che emana questo album in particolare è di essere totalmente immersi nell’essere un’unità, determinati a perseguire qualsiasi idea sonora venga loro in mente, senza porsi limiti né economici – 300 ore di studio per terminare “Revolver” è un conto economico senza precedenti – né artistici: c’è una alternanza continua fra ballate introspettive e hard rock esplosivi, con l’aggiunta di due brani che toccano estremi che solo una band molto sicura di sè può permettersi non solo di fare, ma persino di pensare: la musica classica in “Eleanor Rigby“ e la musique concréte in “Tomorrow Never Knows“. Questa sovrapproduzione di idee la si coglie anche nel numero di brani (14 contro i 10-12 abituali), e nel fatto che quasi tutti sono sfumati, a volte anche brutalmente, e che quindi il disco potrebbe essere tranquillamente diversi minuti più lungo dei 35 a cui si ferma il minutaggio.
Come ha scritto Rob Sheffield su Rolling Stone, «”Revolver” è tutto sul piacere di essere i Beatles, nel periodo in cui ancora godevano ognuno della compagnia degli altri. Considerata l’acrimonia che pervaderà la band verso la fine, è facile vedere quanto tutti a questo punto amassero essere i Beatles e passare il tempo insieme. Nonostante tutte le porte della società e delle celebrità fossero aperte per loro, i loro contatti umani erano uno con l’altro, sintonizzati su una lunghezza d’onda che la gente intorno a loro poteva sentire ma non condividere. Tutto l’album emana la vibrazione dello studio come una clubhouse, con ognuno che si nutriva delle idee dell’altro».
Cita l’arroganza e la autostima che è altissima, la convinzione che qualunque genere affrontino verrà fuori bene: un sentimento non frequente ma senza il quale un risultato come “Revolver” sarebbe impensabile. Del resto, è il momento in cui i Beatles sono al centro del mondo, considerando che la swinging London è per tutto il mondo occidentale la capitale culturale del momento, e loro ne sono il simbolo.
La copertina iconica di Klaus Voorman – bassista e illustratore, loro vecchio amico fin dai tempi di Amburgo – i loro quattro volti disegnati con pochi efficacissimi tratti ed enhanced con gli occhi, un collage di loro foto che escono al centro in mezzo ai mop top stilizzati, fa capire subito che il livello artistico è alto.
I brani vanno in tante direzioni diverse, gioiellini di due minuti e mezzo o tre realizzati in studio con una cura maniacale per i dettagli, tante piccole (o grandi) rifiniture e invenzioni sonore (che sono) risultato di una sperimentazione continua, giocosa si direbbe (anche se a volte lunghissima) condotta insieme al super produttore e ormai quinto Beatles a tutti gli effetti, George Martin. Nonostante venga pubblicato subito prima del loro ultimo tour americano e inglese, nessuno dei brani verrà mai suonato dal vivo, le loro invenzioni di studio stanno diventando impossibili da replicare dal vivo, tanto più in mezzo al frastuono assordante di migliaia di ragazzine urlanti.
L’esempio migliore di questa astronave sonora, il comandante Martin in plancia, è il primo brano che incidono, anche se curiosamente è quello che chiude l’album, fuor di dubbio il più sperimentale e avanguardistico. Quello che per certi versi setta l’asticella, molto alta:
«Turn off your mind, relax and float downstream, it is not dying….
Spegni la tua mente e galleggia lungo la corrente, non è morire…».
La frase è presa dall’adattamento del Libro Tibetano dei Morti – una sorta di guida per il trapasso secondo il buddismo tibetano – da parte di Timothy Leary e Richard Alpert, due psicologici reietti all’Università di Harvard, a Boston. Leary è considerato il guru dell’esperienza psichedelica attraverso l’uso guidato dell’LSD.
Nel suo delirio di onniscienza, fondamentalmente Leary sostiene che c’è un parallelo fra l’esperienza mistica attraverso la meditazione – il raggiungimento del samadi, ovvero dello stato di benessere assoluto nel distacco dal mondo – e la molecola chimica estratta dalla segale cornuta nel dopoguerra nei laboratori svizzeri della Sandoz, l’acido lisergico, sul quale in quegli anni si sperimenta un po’ dovunque. All’inizio viene usata in psicoanalisi, perchè si pensa possa aiutare un’analisi del subconscio svincolato dal controllo della mente.
Nelle teorie di Leary suona come la perdita dell’ego, e il migliore dei mondi possibili, o forse è meglio dire impossibili. Perché la meditazione è un processo naturale, graduale, nel quale la mente si arrende spontaneamente, è il meditatore in controllo; l’acido è interazione biochimica imprevedibile – è lui in controllo. I rischi sono alti, e visto l’uso intensivo per poco Lennon non si aggrega al gruppetto di musicisti inglesi (pensate a Syd Barrett dei Pink Floyd) che con l’acido avranno esperienze devastanti.
Lennon è attratto dalla cultura psichedelica in generale, affascinato dalla potenzialità dell’LSD di esplorarsi, di viaggiare in zone che la coscienza non conosce e controlla, di lasciarsi andare:
«Abbandona tutti i pensieri e arrenditi al Vuoto – sta risplendendo
Che tu possa vedere il significato del didentro – è essere
Che l’amore è tutto, che l’amore sono tutti – è conoscenza…».
Continua a cantare nella prima strofa, citando The Void, il vuoto, quello che c’è aldilà dell’apparenza. Potrebbe essere una strofa di una canzone di Claudio Rocchi. Tutta la vita siamo accompagnati da un pensiero dopo l’altro, com’è staccare e non avere più pensieri? È il terzo viaggio di Lennon, che nella sua villa nella campagna inglese, un po’ annoiato e lontano da tutto inizia una serie di giornate in cui questa sua ricerca interiore diventa il suo stile di vita quotidiano.
Nell’imperdibile racconto minuzioso, brano per brano, che Ian McDonald ha dedicato ai Beatles, “Revolution In The Head”, a “Tomorrow Never Knows”, titolo scelto da John per levare un po’ di prosopopea a “The Void“, il primo scelto, vengono dedicate otto pagine, in cui c’è una lista di tutti gli effetti con cui i Beatles e Martin costruiscono il brano.
Costruito nello stile della musique concréte francese, corrente artistica iniziata 20 anni prima che si basa sull’uso di suoni – umani, animali, rumori – come strumenti per realizzare musica: quelli che sembrano suoni di gabbiani, o forse i vocalizzi delle cerimonie degli indiani d’America sono invece le risate di Paul sovrapposte e accelerate.
La ricchezza dei suoni che punteggiano il brano è senza fine, e senza limiti: un mellotron suonato sulle tonalità del flauto, una frase a scalare di sitar, saturata e accellerata; scale modali indiane suonate rock, un suono dronico eseguito da George al tamboura, strumento indiano, più l’insistente basso mononota di Paul e il pattern ipnotico anche della batteria di Ringo; altri loop che per tutto il tempo creano fraseggi, contrappunti, pennellate di suono. Per la prima volta, al posto di un tipico assolo di chitarra c’è un “assolo di nastro“, ovvero l’assolo di chitarra elettrica di Paul su “Taxman“ rallentato di un tono, tagliuzzato e ascoltato al contrario.
Concettualismo, divertimento, psichedelìa sono la cifra. Se la sentite in cuffia, ci sono suoni di tutti i tipi che escono in un pastiche psichedelico continuo. È una musica mistico-elettronica. È come essere proiettati in una cerimonia sciamanica in una parte indefinita del mondo. Forse passato, forse futuro.
Peter Hamill dei Van Der Graaf Generator lo ha scelto come uno dei momenti, nei secoli, che hanno cambiato la storia della musica.
«Sono quei brani dopo aver sentito i quali cambia tutto. Se sei un musicista, poi devi andare avanti, devi sfidare te stesso a seguire quel sentiero. Dopo questo brano, le regole cambiano, le porte sono aperte in termini di possibilità, e le sue influenze si riflettono in ogni brano di musica pubblicato successivamente. Un test se sei o non sei con noi. È nel territorio della musica concreta, usando il suono puramente come suono, pur conservando la ripetitività del cantato e di una forma musicale che è al centro di tutta la pop music. Senza quello niente “Strawberry Fields“, niente “Sgt. Pepper”, e via così».
Dj Spooky, celebre dj e produttore sperimentale in territorio di elettronica e hip hop, nel 2011 ha detto: «È una di quelle canzoni nel DNA di così tante cose che succedono adesso. Il suo collage di nastri la rende uno dei primi momenti di uso del sampling. E credo che l’idea di studio come strumento di Brian Eno venga da questo tipo di registrazioni».
Questo è anche l’album in cui Paul comincia a insediarsi alla guida del magic bus beatlesiano, è la forza trainante che rimarrà attiva fino all’ultima chance di rimanere insieme come band, creando peraltro diverse frizioni con chi non accetta il suo fare così insistente.
In questa fase, portato dal fratello della fidanzata Jane Asher, Peter (che un giorno diventerà famoso produttore in America), si è tuffato nella scena d’avanguardia londinese: spettacoli, gallerie d’arte, librerie, teatro, non vuole perdersi nulla di quello che succede: «Mi danno un po’ fastidio le persone che sanno cose che io non so», dice all’Evening Standard, «cerco di assorbire tutto, tutto quello che mi è sfuggito. La gente dice, e dipinge, e scrive e compone cose che sono grandiose, e io devo sapere cosa stanno facendo». Questo suo essere spugna lo porta a ad ascoltare musica elettronica, sperimentale e classica, che sarà l’ispirazione dietro a “Eleanor Rigby“. È lui che, con due registratori a nastro Brenell, con gli amici crea a casa questi loop per puro divertimento, e uno di questi diventerà l’assolo di nastro su “Tomorrow Never Knows“.
“Tomorrow Never Knows“ è chiaramente il salto quantico in avanti, ma non c’è praticamente un solo brano che non goda di una elaborazione in sala di incisione, quella che oggi chiameremmo post-produzione. Geoff Emerick, il ventenne nuovo ingegnere del suono braccio destro di Martin, ricorda che “Revolver” è diventato velocemente l’album in cui i Beatles dicevano: «Ok, questo suona benissimo. Adesso sentiamo la registrazione al contrario, o velocizzata, o rallentata», per sentire come suonavano i brani ascoltati in modo diverso.
Ci sono sottigliezze elettroniche mischiate a piccole trovate artigianali: i nastri suonati al contrario sono l’accompagnamento di “I’m Only Sleeping” (a volte chiedevano a Martin di trascrivere le partiture dei loro assoli e poi li suonavano al contrario), ma Geoff riempie anche i tom tom di Ringo col suo pullover di lana, dandogli quel suono un pò sordo che per anni batteristi e tecnici del suono cercheranno di emulare.
George Martin racconta come Geoff sperimentasse continuamente, e i boss alla EMI non gradissero: «Lo hanno sgridato severamente quando ha messo un microfono in un secchio d’acqua per sentire l’effetto». I Beatles, scrive Sheffield, «avevano messo tutto il personale di Abbey Road in una mentalità da improvvisazione: non dire mai “no”, ma rispondere ad ogni idea con un “sì, e quindi…”».
“Revolver” è l’album dove a George viene dato finalmente più spazio, e firma tre brani. “Taxman” apre l’album, una sarcastica critica del sistema di tassazione inglese «se per te il 5% ti sembra troppo piccolo, ringrazia che non ti prendiamo tutto, perché io sono l’uomo delle tasse», con richiamo diretto al Primo Ministro di allora, Harold Wilson, e al leader del partito concorrente, il Tory Edward Heath. Elettrica, dura, acida. C’è “I Want To Tell You“, col piano di McCartney un pò dissonante che interpreta il mondo disorientato di un ragazzo alle prese con un amore: «Voglio dirti che mi sento per aria e non so perchè / ma non è un problema, potrei aspettare per sempre, ho tempo».
La terza “Love You To” è una canzone dedicata alla moglie Patti:
«La durata della vita è così corta, una nuova non si può comprare
Ma quello che hai significa così tanto per me».
Ed è il primo brano che – sugli insegnamenti di Ravi Shankar che ha conosciuto l’anno prima – si rifà per intero alla musica indiana hindustana, sitar e tabla cortesia del North London Asian Music Circle, il collettivo di musica indiana di cui Harrison è frequentatore. È il debutto di un brano di world music su un album occidentale, una intrigante fusione di una parte vocale in stile beatlesiano con un accompagnamento totalmente originale (“Within Without You” seguirà su “Sgt. Pepper” con dimensione più cosmica).
Paul, ricerche sonore a parte, consegna alcune melodie tipicamente maccartiane, quei gioiellini pop da tre minuti che gli vengono con continuità impressionante: “Here There And Everywhere”, da sempre una delle sue preferite, è una melodia dolcissima e intima con cori ispirati ai Beach Boys. Dedicata ovviamente a Jane:
«Qui cambiando la mia vita con un gesto della mano…
Lì qualcuno parla ma lei non lo sente nemmeno…
Dovunque entrambi che pensiamo che l’amore non morirà mai».
“Good Day Sunshine“ è tipicamente Beatles, ottimismo e solarità che si diffondono a vista. E infine “Got To Get You Into My life”, una sorta di r’n’b molto più corposo con i fiati del gruppo di Georgie Flame, stilista soul jazz popolare ai tempi, è un’altra dichiarazione d’amore, che inizia con la voglia di andare in scoperta…
«Ero da solo, mi sono fatto un giro
Senza sapere cosa avrei trovato lì,
Un’altra strada dove avrei potuto trovare un’altra mente…
E poi di colpo ti vedo
Ti ho mai detto che ho bisogno di te,
Ogni singolo giorno della mia vita?
Anche se, a un certo punto, una chance – chissà quanto ironica – se la dà…
Cosa posso fare? Cosa posso essere?
Quando sono con te voglio stare lì
Se sono sincero, non me ne andrò mai
E se lo faccio conosco la strada per arrivarci…».
Con vocalizzi finali alla Little Richard. Molto tempo dopo, storia con Jane finita nel ’68, dichiarerà che la cosa che «deve far entrare nella mia vita» non era una donna ma la marijuana, che era già entrata nella sua vita (e in quella degli altri tre) durante il loro famoso incontro con Dylan al Delmonico Hotel nel ’64.
Una ode a un pusher di sostanze varie, “Doctor Robert“ (forse un vero dottore newyorkese per le celebrità, forse riferita a Timothy Leary):
«Giorno e notte lui c’è sempre
Se sei giù ti tirerà sù
Bevi un sorso dalla sua tazza magica».
La dedica anche John: è entrato nel suo periodo lisergico, il fatto di stare in una bella villa in campagna a Weybridge lo isola un pò dagli altri, e passa molte giornate in uno stato narcotico, o semplicemente sonnacchioso, come canta in “I’m Only Sleeping”:
«La gente dice che sono pigro,
Non mi dà fastidio, penso siano pazzi
Corrono qui e là a tale velocità
Finchè non scoprono che non ce n’è bisogno
Per favore non rovinate la mia giornata
Sono miglia lontano
E dopo tutto,
Sto solo dormendo
Per favore non svegliatemi
Non scuotetemi
Lasciatemi dove sono
Sto solo dormendo».
Gli altri due brani di John sono “And Your Bird Can Sing” e “She Said She Said”, e sembrano due questioni personali – chissà a chi si riferiscono – portate in canzone, con tono complice il primo e sarcastico il secondo. Il primo è dedicato a qualcuno che si vanta della propria donna:
«Mi dici che hai tutto quello che vuoi
e che la tua ragazza sa cantare
ma non mi prendi…quando tuoi pregiati possedimenti
ti cominceranno a pesare
guarda dalla mia parte, io ci sarò».
“She Said She Said” è invece proprio un batti e ribatti con una donna con la quale ci si intende poco:
«Lei ha detto: so cosa vuol dire essere morto, cosa vuol dire essere triste
E mi fa sentire come se non fossi mai nato…
Io ho detto: chi ti ha messo tutte quelle cose in testa?
Cose che mi fanno sembrare matto, e mi fai sentire come uno che non è mai nato».
Due pezzi elettrici, potenti, di carattere, niente dolcezze.
Rimangono tre canzoni di Paul, ognuna a modo suo rilevante. “Yellow Submarine”, pur accolta da un biglietto velenosetto di John («Disgustosa. Vediamoci.») è perfetta per Ringo, una favoletta con cantilena che sarà trasformata in una genialata psichedelica attraverso uno dei film d’animazione più divertenti e fantasiosi mai concepiti nel mondo della musica. Segno anche di come ogni cosa dei quattro potesse poi godere di una ulteriore elaborazione che ne alzava e amplificava il livello.
“For No One” è una meraviglia, intima e malinconica, brevi e intensi flash di una storia d’amore che finisce senza che tu te ne dia pace:
«Tu stai a casa, lei esce
Dice che tanto tempo fa conosceva uno
Ma ora non c’è più, non ne ha più bisogno
Il tuo giorno va in pezzi, la tua mente soffre
Ci sarà un momento quando tutte le cose che ha detto
Ti riempiranno la testa, non la dimenticherai
E nei suoi occhi, non vedi nulla
Nessun segno d’amore dietro le lacrime
Versate per nessuno
Un amore che saebbe dovuto durare anni».
1’29” (quanto si può dire in due minuti se sei un genio) di pura essenza maccartiana che finiscono prima che te lo aspetti e rimangono sospesi nell’aria, come se la voce narrante volesse evitare di ribadire la triste conclusione. Un arrangiamento semplice e per questo ancora più toccante, solo una tastiera suonata da Martin reminescente di un clavicembalo, e un breve assolo di corno francese da parte del più famoso strumentista inglese, Alan Civil.
Pop da camera che sa di perfezione, così come lo è anche “Eleanor Rigby“ (2’04”, stessa percentuale di genialità), accompagnamento di un ottetto d’archi, partitura sempre di Mago Merlino Martin per sottolineare una storia così british, e così universale, di solitudine. Protagonisti due anziani, la prima che raccoglie il riso di un matrimonio e
«vive in un sogno
aspetta alla finestra
Indossando la faccia che conserva in un vaso vicino alla porta
per chi è?».
L’altro protagonista è il parroco, Padre McKenzie, che
«Scrive le parole di un sermone che nessuno ascolterà
Nessuno lo avvicina
Guarda come lavora rammendando le sue calze
Di notte, quando non c’è nessuno
Cosa gliene importa?».
Per entrambi il coro che chiude la strofa è lo stesso, con un sentimento di empatia nei confronti della gente che vive la propria realtà solitaria
«Ah, look at all the lonely people
Where do they all come from?
Ah, guarda tutti i solitari
Da dove provengono?»
Nell’ultima strofa la storia ha una inevitabile, triste finale:
«Eleanor Rigby è morta in Chiesa ed è stata sepolta con la sua lapide
Non è venuto nessuno
Padre McKenzie si pulisce le mani dalla terra mentre si allontana dalla tomba
Nessuno è stato salvato…».
Sottintendendo forse l’impossibilità di ottenere la salvezza attraverso la religiosità. Questa struggente storia di due mondi che non riescono a interagire con la realtà esterna, nei quali McCartney mostra la sua poesia nel tratteggiare i personaggi, the characters – che identificava la maniera di scrivere di Paul ed era molto lontana dalla sensibilità di John – è un messaggio a tutti coloro che vivono e soffrono in silenzio, dimenticati, ed è un momento di empatia che raramente si trova nelle canzoni dei Beatles: «Da dove vengono tutti i solitari? Qual è il loro posto nel mondo?».
“Revolver”, il cui titolo doveva essere in origine The Magic Circle, il Cerchio Magico dei Fab Four, poi cambiato in favore di una battuta, «Il disco cos’è? Qualcosa che gira…», è l’album in cui si scrive il manifesto delle possibilità, infinite, di un gruppo nel suo momento di grazia. C’è un’alternanza di atmosfere continua, con alcuni momenti di arte altissima. È il preludio al capolavoro (a mio parere, anche se molti pensano che sia già questo il capolavoro), ma è di sicuro l’album dopo il quale nulla sarà più lo stesso.