Tutto il contrarioIl pasticcio semantico che ha capovolto il senso di “referente”

Un po’ per follie burocratiche, un po’ per influenza anglosassone, la parola – con un significato attivo, di “riportare” – ha assunto nel tempo anche quello passivo, di “punto di riferimento”. Un’incoerenza etimologica notevole che fa un po’ ridere e un po’ disperare

di Davisuko, da Unsplash

Tra i prodigi di cui è capace la lingua, oltre a rimescolare il genere e il numero di un vocabolo, “Linguaccia mia” se ne è occupata a proposito di succubo, maschile singolare, che nei deragliamenti del parlato diventa succube, a rigore femminile plurale), è anche quello di rovesciare il senso di una parola che propriamente definirebbe il soggetto di un’azione, ossia qualcuno da cui un’azione viene svolta, trasformandolo in qualcuno o qualcosa verso cui un’azione viene indirizzata, che attira ma non compie un’azione. È il caso di “referente”, la cui inarrestabile fortuna nell’uso corrente coincide con la sfortuna semantica.

Dal punto di vista morfologico, “referente” è un participio presente e in quanto tale ha sempre un significato attivo, allo stesso modo della forma latina da cui deriva, referens referentis, participio presente di refero, “riporto” (“riporto” in tutti i sensi, compreso quello orale: quindi “riferisco”), da cui viene anche un gerundivo neutro d’attualità in questi giorni: referendum. Nella lingua italiana “referente” – che dal punto di vista sintattico può avere sia una funzione attributiva, sia sostantivata – è dunque colui che riferisce. Ed è in questo senso proprio che la parola viene utilizzata, come aggettivo, nell’espressione “in sede referente”, detta della commissione parlamentare (distinta da quelle “in sede legislativa o deliberante”, “in sede redigente” e “in sede consultiva”) che ha il compito di esaminare i progetti di legge e di riferire, ossia di redigere una relazione (latino relatio relationis, sempre da refero, formata sul participio passato relatus) da portare in aula per il voto.

Si tratta però di un utilizzo tecnico e di ristretta circolazione. In quello più comune “referente” è essenzialmente un sostantivo e i referenti pullulano ovunque, dal mondo delle aziende alla scuola a qualsiasi ambiente lavorativo o sociale: sono le persone a cui fanno capo le diverse strutture organizzative, o a cui fare riferimento in relazione a determinate necessità che possono essere permanenti o transitorie. Un’accezione corrente nel gergo burocratico, sancita per esempio nella circolare DFP n. 13/2010 che, in margine alla legge-quadro n. 104/1992 “per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” (modificata con la legge n. 183/2010), parla di “referente unico” per indicare «il soggetto che assume [e qui la circolare recepisce alla lettera il parere n. 5078/2008 del Consiglio di Stato] “il ruolo e la connessa responsabilità di porsi quale punto di riferimento della gestione generale dell’intervento, assicurandone il coordinamento e curando la costante verifica della rispondenza ai bisogni dell’assistito”» (corsivo nostro).

Anche alla base della locuzione “punto di riferimento” è il verbo refero, ma con un diverso valore semantico. Se volessimo tradurre in termini grafici, potremmo rappresentare il “referente” come una figura attiva dalla quale si diparte una serie di frecce vettoriali, mentre il “punto di riferimento” come una figura passiva verso la quale le frecce convergono. Poi, ovviamente, se queste frecce sono domande che gli vengono poste, potrà anche riferire e quindi la direzione delle frecce si invertirà, ma questo soltanto in un secondo momento, quando, in risposta all’azione esterna di cui è destinatario passivo, si sarà attivato trasformandosi in qualcos’altro: appunto, in “referente”.

Come è avvenuta questa confusione di ruoli? Cherchez la femme, si suole dire per suggerire che alla base di molti accadimenti, magari molto alla lontana, è sempre una donna; nel nostro caso, come in diversi altri, al posto di femme bisogna mettere la lingua inglese. È infatti nell’edizione 1844 dell’Oxford English Dictionary che viene registrata per la prima volta la definizione di referent come “colui al quale si fa riferimento”. Un’accezione all’epoca evidentemente in circolazione, ma impropria anche in quella lingua, in quanto il suffisso –ent, impiegato per formare aggettivi e sostantivi, rivela chiaramente l’impronta del participio presente e, come quello, conferisce alla parola il valore di qualcosa o qualcuno “causing or performing an action” (Collins English Dictionary).

Ma non finisce qui, perché da questo uso improprio, sempre a partire dalla lingua inglese, si è in seguito sviluppato, con una sottile ma importante distinzione, il non meno arbitrario uso tecnico in semantica, fissato nel 1923 da Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards nel saggio Il significato del significato: uno studio sull’influenza del linguaggio sul pensiero e sulla scienza del simbolismo: quello per cui referente è “ciò a cui qualcosa fa riferimento”, la realtà extralinguistica significata da un segno o altro messaggio linguistico.

Da referente (participio presente) a realtà extralinguistica significata (participio passato), da un valore attivo a uno passivo. L’uso corrente ha così consacrato un tipico caso di enantiosemia, il fenomeno linguistico per cui uno stesso termine può avere due significati opposti: l’esempio forse più noto è “ospite”, che designa tanto l’ospitante quanto l’ospitato. Ma qui l’ambivalenza, comune a tutte le lingue romanze, è per così dire connaturata nella parola e radicata nei codici della società da cui trae origine, perché nell’antica Roma (così come nell’antica Grecia) l’ospitalità era un dovere sacro che presupponeva la reciprocità, e per l’hospes che riceveva era ovvio aspettarsi di essere a sua volta ricevuto; nel caso di referente, invece, il doppio significato non ha alcuna ragione né etimologica né grammaticale, non bastando a fondarlo l’attesa che il referente-punto di riferimento sia qualcuno effettivamente disposto a (o in grado di) riferire, e sempre che si faccia trovare.

Certo, si dirà, le lingue si evolvono, nascono di continuo parole nuove e i significati di quelle vecchie si piegano all’uso che ne fanno i parlanti. E quindi il capovolgimento semantico di “referente” è ormai passato, e se ci sforziamo di non badare a quel suffisso incongruo al suo significato capovolto potremo pure sentirlo pronunciare (pronunciarlo no: un passo per volta…) senza più avvertirlo come stridente. Ma se nell’evoluzione di una lingua salta ogni coerenza etimologica o, come in questo caso, ogni consequenzialità morfologica, di evoluzione in evoluzione si genereranno sempre più equivoci: al nostro orizzonte si profila la nuova babele?