L’incredibile discorso pronunciato mercoledì in Senato dal capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, convinto che sulla pace non bisognerebbe dire «decideranno gli ucraini», bensì «deciderà la comunità internazionale, nell’interesse dell’Ucraina», ha suscitato ieri la comprensibile irritazione di Kyjiv («In quasi tutti i paesi ci saranno politici che cercheranno di compiacere Putin», ha detto tra l’altro il portavoce del ministro degli Esteri). Ma avrebbe meritato maggiore attenzione anche in Italia, anzitutto da Giorgia Meloni, alla quale del resto l’intervento di Romeo era indirizzato, con chiari riferimenti polemici, a partire dall’affermazione, pronunciata poco prima dalla presidente del Consiglio, secondo cui la pace non si otterrebbe «sventolando bandiere arcobaleno» (che in ogni caso non credo piacciano troppo a nessuno dei due).
Limitarsi però a denunciare l’ambiguità della posizione leghista, e di conseguenza le enormi contraddizioni all’interno della maggioranza su questo punto decisivo, vorrebbe dire raccontare solo metà della storia. L’altra metà è infatti rappresentata dai tanti politici, intellettuali, politologi e geopolitologi che da mesi esprimono sostanzialmente lo stesso concetto, che Romeo ha avuto solo la malagrazia di ripetere in un’occasione ufficiale e particolarmente solenne.
L’idea che siano gli Stati Uniti, la Nato, l’Europa, e insomma ciascuno di noi a dover lavorare per imporre all’Ucraina la pace che a noi sembra più giusta e conveniente, cioè la resa, è in effetti la conseguenza più logica e inevitabile della teoria, continuamente ripetuta su giornali e tv, della «guerra per procura». Se gli ucraini non sono che dei pupazzi nelle mani della Nato, come vuole la propaganda putiniana, è evidente che sta ai burattinai, non certo ai burattini, decidere come, dove e quando fermarsi.
Romeo in fondo ha solo esplicitato, con parole non troppo diverse da quelle usate mille volte da Giuseppe Conte e da tanti altri, la teoria della pace per procura.
Coloro che il 5 novembre andranno in piazza a manifestare farebbero bene a chiarire sin d’ora se è questo che intendono, quando invocano la pace. Come hanno fatto Carlo Calenda e gli organizzatori della manifestazione di Milano, ma anche, ad esempio, il gruppo di intellettuali firmatari dell’appello promosso da Micromega, a favore della manifestazione romana. Appello che comincia con queste – sacrosante – parole: «Tutti parlano e straparlano di pace, tutti vogliono la pace. La questione cruciale è in cosa consista la pace. Quando una dittatura imperialista invade con il suo esercito una democrazia, e i cittadini di quest’ultima resistono eroicamente malgrado la schiacciante inferiorità bellica, la risposta, per ogni democratico, è adamantina: pace vuol dire il ritiro dell’aggressore entro i suoi confini, ogni altra soluzione sarebbe un premio a chi la pace l’ha violata, sterminando civili, violentando donne, massacrando e torturando».
Sarebbe bello sentire anche dagli altri promotori e aderenti alla manifestazione di Roma parole così chiare, nella speranza che l’esempio di Paolo Flores d’Arcais e degli altri sottoscrittori del suo appello sia la regola e non l’eccezione.