Riciclaggio bellico Alcune aziende occidentali continuano ad armare il Cremlino nonostante le sanzioni

Spesso avviene per vie traverse, ma è evidente la presenza di componentistica non russa nei missili e nei droni iraniani sparati sull’Ucraina. Le falle da tappare (meglio) e i rischi del “reverse engineering”

Un edificio di Kyjiv colpito da uno dei droni iraniani lanciati dalla Russia
Foto AP/LaPresse

C’è un pezzo di Occidente dentro gli ordigni russi e iraniani che piovono sull’Ucraina. Le sanzioni hanno atrofizzato sia l’economia, entrata in recessione, sia la macchina bellica di Vladimir Putin. Hanno tranciato le forniture di tecnologie, dai microchip in su, da cui il Cremlino dipendeva per fabbricare le armi, come noi da lui per il gas. Non tutti gli approvvigionamenti vietati si sono interrotti, tra mercato nero, le opacità nei Paesi “terzi”, il riciclaggio all’insaputa dei produttori. Le uniche sanzioni che non funzionano sono quelle che non vengono applicate: per questo vanno tappate le falle e fermati i ricettatori. Anche perché la merce di scambio tra Mosca e Teheran è il materiale Nato caduto nelle loro mani. Viene ricondizionato dai regimi ed è esposto all’ingegneria inversa con cui studiano i nostri arsenali per contraffarli.

Dentro i droni kamikaze
Un’inchiesta del Wall Street Journal, basata su fonti di intelligence e corroborata sul campo da una no-profit di Kyjiv (la Nako), ha documentato la presenza di pezzi di origine americana, giapponese ed europea nei droni iraniani lanciati sull’Ucraina. Sono le munizioni della strategia terroristica con cui Putin, ormai in bolletta, ha danneggiato più del quaranta per cento della rete elettrica del Paese, colpendo deliberatamente infrastrutture e obiettivi civili.

A lungo gli islamisti hanno negato le loro responsabilità. Erano evidenti anche prima che le ammettessero, ma con l’ipocrisia di circoscrivere la vendita a un «limitato numero» e quando l’invasione non era ancora avvenuta. La foto del presidente Volodymyr Zelensky a fianco di uno Shahed-131 è un fact checking che non ha bisogno di didascalie. Mosca li ha impiegati, insieme ai più grandi Shahed-136, in modo massiccio nei bombardamenti: quelli inesplosi, per l’Iran, sono un’ammissione di colpevolezza. Gli ucraini sono riusciti a riprogrammarne alcuni, fatti poi atterrare intatti.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a fianco di un drone iraniano
Foto: Presidential Office of Ukraine

Un terzo dei componenti di uno di quelli dirottati, modello Mohajer-6, è risultato di provenienza occidentale. Degli oltre duecento elementi all’interno del missile, in base alle analisi di Kyjiv, quasi metà è fabbricata da ditte americane e circa un terzo da aziende giapponesi. Sembrano costituire il sistema di alimentazione, guida e virata. Senza questi pezzi ad alto tasso tecnologico, insomma, i droni suicidi sarebbero inservibili. Sono considerati una minaccia più immediata del programma nucleare di Teheran.

Per l’Institute for Science and International Security di Washington, ci sarebbero inoltre prove che la Cina stia rifornendo gli ayatollah con copie di componenti occidentali. Molti di quelli originali non sono oggetto di controlli doganali: possono essere acquistati su internet e poi spediti in Iran attraverso altre nazioni. Dopo le denunce giornalistiche, l’amministrazione Usa ha promesso una stretta nelle ispezioni e varato nuove sanzioni, proprio per bloccare i possibili intermediari.

Il riciclaggio della morte
Alcune delle imprese coinvolte in passato erano già state accusate di traffici illeciti. Per esempio, la giapponese Tonegawa-Seiko esportava servomotori in Cina senza un’autorizzazione delle Nazioni Unite. Il Wall Street Journal cita anche, per il materiale elettronico, la tedesca Infineon Technologies e la Microchip Technology dell’Arizona. Non hanno risposto alle richieste del giornale, a differenza della Sierra-Olympic, con base in Oregon, il cui fondatore ha riscontrato nelle fotografie delle differenze nella camera a infrarossi: è simile, ma non identica.

Un’altra pista riconduce all’India, come zona franca. L’Europa non è immune. La francese Total Energies ha aspettato fine agosto per cedere le sue quote in Russia: era comproprietaria dello stabilimento di Termokarstovoye, il cui gas condensato viene raffinato e diventa carburante per i caccia. L’Ue è preoccupata per le importazioni senza precedenti di lavatrici, frigoriferi ed elettrodomestici in Paesi confinanti con la Federazione. Contengono tutti semiconduttori, il timore è che vengano rivenduti. I chip verrebbero estratti e riadattati per utilizzi militari.

L’Armenia ha importato più lavatrici nei primi otto mesi del 2022 che negli ultimi due anni, il Kazakistan ha acquistato frigo per un valore di ventuno milioni di euro. Time ha segnalato l’impennata delle vendite di un dispositivo apparentemente bizzarro, il tiralatte elettrico: Erevan ha triplicato gli ordini, nonostante il tasso di natalità sia diminuito del 4,3 per cento; quelli di Astana sono aumentati del 633 per cento, malgrado lo stesso parametro sia sceso dell’8,4 per cento. Entrambi i Paesi fanno parte dell’Unione economica eurasiatica: il commercio con Mosca non è soggetto a dogane.

Un avvertimento di questo tenore – la macchina bellica del Cremlino è in panne ed espianta microprocessori dagli elettrodomestici – è stato fatto sia dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sia dal presidente americano Joe Biden. Per anni Putin ha cercato di mettere in piedi una specie di autarchia, ma non ci è riuscito: già nel 2021, in base a documenti visionati da Bloomberg, i magazzini dell’esercito risultavano sguarniti in quasi ogni voce strategica dell’inventario.

Merce di scambio
In primavera, man mano che la resistenza si impadroniva di armi sottratte agli invasori, era emersa la dipendenza strutturale dalla tecnologia occidentale. All’epoca era un indizio della premeditazione: la Russia si era preparata alla guerra, facendo scorte. Dentro i missili di crociera lanciati sull’Ucraina c’erano trentuno elementi stranieri. Oggi dimostra la disperazione di Putin, assuefatto alle uniche forniture a cui ha ancora accesso, da Iran e Corea del Nord, mentre una superpotenza virtuale si sgretola nei furti di autovelox e di elettrodomestici.

La lista degli approvvigionamenti di prima del conflitto è inquietante, ha addentellati in troppi Stati dell’Occidente, che si è svegliato solo il 24 febbraio. Oltre ai traffici alla periferia della Federazione, l’asse tra Mosca e Teheran si è consolidato come associazione a delinquere. In segreto, i russi hanno trasportato in Iran duecento milioni di euro (il pagamento per i droni) e tre tipologie di missili dall’Ucraina: i Nlaw britannici e gli americani Javelin e Stinger.

Gli aerei del Cremlino, secondo la fonte di Sky News, sono ripartiti carichi di un centinaio di Shahed-136. Era fine agosto, poche settimane dopo avrebbero colpito le città ucraine. Già in passato, gli islamisti (ma il discorso vale pure per altri regimi) hanno potuto sviluppare armi più efficaci copiando quelle occidentali cadute in loro possesso. Non è niente di nuovo. Si chiama «reverse engineering», o ingegneria inversa. I sovietici arrivarono alla bomba atomica con la stessa scorciatoia.

Le sanzioni funzionano (se applicate)
Nella sua guerra totale, Putin ha sparato bombe a un ritmo superiore a quello necessario a sostituirle. Mentre consumava i suoi arsenali, le sanzioni hanno inflitto un colpo decisivo alle capacità produttive del Paese. Già a maggio, mancavano componenti per motori diesel ed elicotteri, sono stati riesumati dai depositi i carri armati made in Urss. Le restrizioni occidentali hanno menomato la possibilità di assemblare nuovi razzi di precisione, anche se Mosca continua a scagliare quelli di cui dispone contro i quartieri residenziali.

La scorsa estate, sull’elenco delle sanzioni occidentali non figuravano ancora diverse grosse industrie militari russe, nonché parecchi dei loro quadri. Oppure le misure si applicavano alle imprese, ma non ai manager che le dirigono in ossequio ai diktat del governo. Uno dei casi più emblematici è Alan Lushnikov, a capo della Kalashnikov Concern Jsc che sforna i celebri Ak-47 e la quasi totalità delle mitragliatrici e delle armi da fuoco in dotazione alle forze occupanti.

Come scrive Foreign Affairs, quando giudichiamo l’efficacia delle sanzioni spesso ci aspetteremmo che abbiano lo stesso effetto di un bombardamento, ma sono due cose diverse. Hanno obiettivi diversi. In realtà, quelle adottate finora hanno già fatto più male del previsto. La Russia è entrata in recessione e in un periodo di stagnazione da cui non si intravedono uscite. La produzione di automobili, tra marzo e agosto, è crollata del novanta per cento. Non abbiamo statistiche certe, perché non trapelano, ma contrazioni simili sono avvenute per le altre industrie, inclusa quella bellica.

Dopo la crisi del 2008, Putin ha nazionalizzato le principali aziende. Il Paese è quello del G20 che si è ripreso meno: la crescita media annuale del Pil tra il 2009 e il 2021 è stata dello 0,8 per cento, al di sotto di quella dell’ultimo decennio di vita dell’Unione sovietica. Le sanzioni del 2014, anche se insufficienti e in molti casi poi annacquate, hanno contribuito a fare della Russia putiniana un impero di cartapesta, un gigante con i piedi d’argilla. Per questo, mentre ci liberiamo una volta per tutte dai suoi ricatti energetici, dobbiamo finire il lavoro: fatte le sanzioni, vanno fatte rispettare fino in fondo.

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