Ha fatto anche cose buoneLa nuova vita di Boris Johnson è una fondazione a sostegno dell’Ucraina

Il nuovo governo deve ribadire la «relazione speciale» con Kyjiv, dove l’ex primo ministro è considerato un eroe. Sunak è costretto a inseguirlo, anche sulla partecipazione alla Cop27

Boris Johnson a Kiev con il presidente ucraino Zelensky
AP Photo/Andrew Kravchenko

Boris Johnson ha fatto anche cose buone. Non molte, in effetti. Ma nella politica estera, e in particolare nel sostegno all’Ucraina, può annoverare gli unici successi di un premierato burrascoso. La seconda (o terza) vita dell’ex primo ministro, che vanta una bromance con il presidente Volodymyr Zelensky, potrebbe passare proprio da Kyjiv, dove gli hanno già dedicato dolcetti e una targa. Dopo la fallita scalata ostile alla leadership dei conservatori, vinta da Rishi Sunak, starebbe lavorando a una fondazione per raccogliere fondi per ricostruire il Paese invaso.

La rivelazione è del Telegraph, di cui Johnson è stato corrispondente da Bruxelles e firma illustre, che per posizionamento politico è una fonte autorevole di informazioni sulla galassia Tory. L’ex premier, tornato in città quando ha creduto (brevemente) di potersi riprendere il partito, non avrebbe dismesso la sede lavorativa. Un ufficio a Westminster per lanciare «un piano Marshal per l’Ucraina», così lo definiscono nell’inner circle di Boris. Lo stesso Sunak, al momento della rinuncia del rivale, ha auspicato che il suo «contributo alla vita pubblica» non finisse lì e, a 58 anni, eccolo di nuovo protagonista.

Di fatto, si tratta di un sequel di quanto Johnson ha fatto negli ultimi mesi a Downing Street. È stato tra i più convinti fautori della coalizione internazionale per difendere la democrazia aggredita da Vladimir Putin. Non solo a parole, pure con l’invio di armi e addestrando i soldati ucraini sul suolo britannico. Le prossime mosse saranno delicate, anche per evitare incidenti diplomatici e non sorpassare il governo. Per questo, la ragione sociale della fondazione sarà la «ricostruzione» del Paese.

L’annuncio dovrebbe arrivare durante un viaggio negli Stati Uniti, entro la fine dell’anno, con un discorso a Washington. Nella capitale, Boris incontrerà alcuni senatori americani. Punta a ravvivare l’adesione di quella parte dei repubblicani che subordina l’impegno al rigore fiscale. Non ci si può permettere arretramenti, né abbassare la guardia, è il mantra di quello che, almeno fino all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, non rinnegava la nomea di «clone di Donald Trump». Potrebbe rispolverarla, anzi, se gli servisse a farsi ascoltare nel partito cannibalizzato dal tycoon.

In patria, è tornato deputato semplice, per il seggio di Uxbridge, ed è affezionato a quel ruolo. Non lascerà il Parlamento. Il congresso dei Tories l’ha eletto presidente dei «Conservative friends of Ukraine». È (anche) un modo per rassicurare gli alleati: dopo l’uscita di scena di quello che Kyjiv considera un eroe, non è in discussione l’aiuto del Regno Unito. Vanno in questa direzione pure la conferma di Ben Wallace come ministro della Difesa e la prima chiamata di Sunak da premier, a Zelensky prima che a Joe Biden.

La nuova «relazione speciale» di Londra è questa, oltre a quella storica con la Casa Bianca. Sunak deve scrollarsi i pregiudizi che lo vorrebbero più «tiepido» dei predecessori sul dossier. Ha fama di essere più interessato ai soldi, e al bilancio dello Stato, che alla geopolitica. Non sembra favorevole a spingere l’aumento delle spese militari sopra il tre percento, già sottoscritto da cancelliere dello Scacchiere. Alle dimissioni di Liz Truss, un meme che recitava «Better call Boris» era stato twittato e poi sùbito cancellato dal profilo ufficiale dell’Ucraina.

Lì Johnson è più popolare del nuovo primo ministro: in questa fase storica, sono credenziali spendibili sulla scena mondiale. Per restare al suo posto in futuro, Sunak dovrà provare ad attirare su di sé questa attenzione. La Brexit ha reso agli occhi di molti osservatori la politica inglese una barzelletta, negli anni di Boris questa reputazione ha traslocato dentro Downing Street, ma l’ha smentita a partire dal 24 febbraio. A Kyjv l’hanno apprezzato anche per i suoi «difetti», per gli slanci che hanno preceduto il calcolo politico del resto del continente.

Sulla Cop27 potrebbe ripetersi una dinamica simile, con Sunak costretto a inseguire il suo ex datore di lavoro. Truss aveva ostacolato i piani di un blitz a Sharm-el-Sheikh di Re Carlo III, ambientalista da prima che fosse mainstream. Il neopremier vorrebbe ribadire il divieto e non è chiaro se volerà in Egitto per un summit dove, almeno all’apertura, si raduneranno i principali leader planetari, tra cui Biden. Ci andrà pure Emmanuel Macron, ma a convincere il primo ministro a un ripensamento non è il competitor di sempre, cioè la Francia, ma quello interno al suo partito.

Di nuovo Johnson. Ha fatto filtrare che lui andrà alla Cop. Disertare la ventisettesima edizione dopo aver ospitato quella precedente a Glasgow sarebbe una figuraccia, anche se motivata con la «ragion di Stato». Un tradimento delle ambizioni globali del Regno Unito. La linea ufficiale, ora, è che Sunak presenzierà se avrà sbloccato alcune decisioni economiche che ritiene cruciali. Una retromarcia. Certo, non all’altezza di quella con cui Truss si è rimangiata la manovra incenerita dai mercati, ma è l’indizio che i conservatori non hanno archiviato la stagione del caos e, soprattutto, non si sono ancori liberati dall’eredità ingombrante di Boris.