La manutenzione comincia dalla carrozzeria. Per prima cosa si rimuove la Zeta simbolo dell’invasione, poi si ripara il resto. Gli ucraini si sono impadroniti di centinaia di carri armati e mezzi militari russi dall’inizio della guerra. Le ritirate hanno reso involontariamente Mosca una delle principali fornitrici di armi pesanti di Kyjiv. L’esercito li chiama «trofei», esistono unità votate alla loro riconversione. Hanno già contribuito alla liberazione dei territori occupati: con l’aiuto degli alleati, possono essere decisivi per le prossime vittorie.
Quando non li fanno direttamente saltare in aria, gli ucraini riescono a catturare i tank. La media è quasi di uno su due. Secondo le ricostruzioni, hanno sottratto al nemico 527 carri a fronte di 922 distrutti. L’inventario del bottino include 251 veicoli corazzati, 569 blindati della fanteria, 94 mezzi per il trasporto delle truppe e 51 lanciarazzi multipli. Le stime si fondano su bollettini e persino video e foto dai social, ma è probabile che i numeri reali siano più alti, anche perché non tutto l’equipaggiamento confiscato viene filmato.
A sua volta, la Federazione ha predato alcuni asset: 143 carri, 72 veicoli corazzati e 89 blindati. Ma queste razzie sono avvenute soprattutto nelle prime fasi del conflitto, quando le truppe di Vladimir Putin erano (brevemente) riuscite a controllare regioni che avrebbero perso di lì alla primavera o all’estate. L’arretramento russo ha lasciato indietro, per esempio a Izyum, una sbalorditiva quantità di carri, mezzi e munizioni che hanno contribuito ad alimentare l’avanzata ucraina.
Recentemente un tank T-80 e un semovente 2S23 Nona Svk sono stati impiegati contro i loro ex proprietari sul fronte di Bakhmut, in Donbas. In precedenza, le armi strappate agli aggressori in rotta hanno permesso la riconquista di Kharkiv e di Lyman, i successi nell’Est del Paese che hanno poi indotto gli occupanti a ritirarsi da Kherson. «Ci hanno lasciato dei regali e ora sparano contro di loro, ci aiutano a ricacciarli indietro», è l’entusiasmo di un soldato alla Reuters.
I «trofei» da soli non bastano. Per ripararli ci vogliono a volte mesi, dipende dalle condizioni. Il T-80 e il mortaio di Bakhmut, per esempio, erano finiti nelle mani di Kyjiv a marzo. Solo una piccola parte dell’equipaggiamento proviene da depositi militari o magazzini ed è già pronta all’utilizzo. È il caso dei proiettili d’artiglieria, fabbricati con standard sovietici comuni alle forze ucraine. I mezzi troppo danneggiati vengono invece saccheggiati per ricavarne pezzi di ricambio.
Il processo per dare una seconda vita ai veicoli che possono essere recuperati è laborioso. Quando funziona, però, offre ai liberatori risorse strategiche che prima del 24 febbraio non figuravano nemmeno nei loro arsenali. Il Washington Post ha visitato l’officina di una divisione meccanizzata. «È ovvio che dovrebbero combattere il nemico e non essere bloccati in un hangar», si è sfogato il comandante, parlando di un Bmp-3.
Mancano i ricambi. Per alcuni modelli, va bene la componentistica ucraina; per altri occorre ripiegare sui veicoli catturati, ma non esiste (ancora) un database a cui attingere. Spesso, anche i mezzi “intatti” erano in cattive condizioni o già non funzionanti. Se gli ucraini sono in grado di aggiustare il loro materiale a ridosso delle prime linee, per quello inviato dagli Stati della Nato devono affidarsi a centri oltreconfine. Per esempio, un obice va spedito in Polonia, ma così lo si perde per settimane.
Ogni brigata oggi ha una squadra con il compito di cercare nei campi carri armati e altri mezzi abbandonati, per poi portarli nei siti di riparazione, dove scarseggia l’elettricità a causa dei bombardamenti terroristici di Putin. Gli ucraini hanno dimostrato una grande capacità di adattamento: combattono con materiale russo, o di derivazione sovietica, e con quello (più preciso) occidentale e americano.
Più di trenta nazioni hanno inviato aiuti militari a Kyjiv. In quella classifica, dopo Stati Uniti e Regno Unito, si trova la Polonia che ha mandato 230 carri armati insieme alla Repubblica Ceca. Se c’è preoccupazione tra gli alleati per le scorte sotto pressione, per esempio sui proiettili d’artiglieria o i lanciarazzi da spalla, è tanto più importante aiutare gli ucraini a riscattare le armi che il Cremlino voleva usare contro di loro. Invece sta perdendo una guerra dove ha lasciato sul campo, in un anno, dieci volte le vittime del fallimento decennale in Afghanistan.
È la prova che le sanzioni funzionano, proprio come i price cap faticosamente raggiunti sul petrolio e sul gas di Mosca. Nel caso del greggio, il tetto al prezzo adottato da G7, Unione europea e Australia varrà una contrazione del Pil peggiore di quella prevista dal Cremlino. In particolare, il deficit sarà più vasto del due per cento. Secondo il Financial Times, una delle lezioni del conflitto è «il ritorno della grande guerra», che si regge cioè su un imponente apparato industriale. Per Putin è sempre più difficile pagarsi un’«operazione speciale» in perdita, perché le contromisure dell’Occidente – quando riesce a essere unito – stanno erodendo l’economia russa.