Certezza della pena non significa solo carcere. Certezza della pena significa garantire che lo Stato sia in grado di assicurare risposte immediate e, soprattutto, efficaci per il reinserimento sociale dei condannati. È una consapevolezza che negli ultimi trent’anni è maturata molto nella giustizia penale minorile italiana, al punto da renderla un modello virtuoso a livello europeo per il recupero dei minori e, di conseguenza, per il contrasto alla criminalità giovanile.
Sebbene nel 2022 siano aumentati del 14,3 per cento i reati commessi da minori di diciotto anni (rispetto al 2019), su circa quattordicimila arresti sono meno di quattrocento i giovanissimi presenti negli istituti penali per minorenni (Ipm). Più precisamente, secondo gli ultimi dati del Dipartimento per la Giustizia minorile, sono 385 i minori e i giovani adulti (dai diciotto ai ventiquattro anni che hanno commesso il reato quando erano minorenni) presenti nei diciassette Ipm sparsi per l’Italia.
È un indicatore del fatto che la giustizia minorile italiana sta progressivamente superando il modello della detenzione in carcere a favore di misure alternative, come le comunità residenziali e la messa alla prova. «L’Italia ha una normativa molto avanzata sui minori, in gran parte influenzata da una cultura di accoglienza e non tanto di repressione della devianza giovanile», dice a Linkiesta Michele Miravalle, componente dell’osservatorio nazionale di Antigone.
Rispetto agli altri Paesi europei l’Italia fa un ricorso davvero residuale alla detenzione dei minorenni. Per ogni centomila abitanti, infatti, nel nostro Paese i minori in carcere sono circa tre volte meno della Francia e quattro volte meno di Germania e Regno Unito. L’Italia si guadagna così uno dei primi posti in Europa insieme a Paesi come la Finlandia e l’Olanda. «La giustizia minorile italiana è ai primissimi posti – spiega Miravalle –. All’estero c’è molto interesse verso il nostro sistema: ad esempio negli Stati Uniti si dibatte, con posizioni politiche molto differenti, su una giustizia minorile che prescinda dallo strumento della galera a favore di strutture intermedie come le comunità».
Se si considera il reato come uno strappo che si consuma tra l’autore e la società, si comprende quanto sia complesso ricucire questa ferita. Tanto più se a commettere il reato è un adolescente: il suo reinserimento sociale sarà ancora più delicato di quello di un adulto e lo stigma dell’esperienza carceraria potrebbe segnarlo per sempre. È in termini rieducativi, quindi, che deve essere valutato un modello come quello italiano.
I numeri dicono che sono pochissimi i procedimenti penali a carico di minorenni che terminano con la condanna alla pena detentiva. Lo si deduce dal fatto che la maggior parte dei minori di diciotto anni presenti negli Ipm è in attesa del primo grado di giudizio.
Ma è sul piano rieducativo che va valutato il modello italiano: un ordinamento in cui si osserva un tasso di recidiva superiore per chi è stato in carcere. La differenza più marcata si nota nel confronto con lo strumento della messa alla prova. I minorenni che hanno usufruito della sospensione del processo penale (con relativa messa alla prova e successiva estinzione del reato), infatti, vantano un tasso di recidiva del venti per cento nei settantasei mesi successivi alla commissione del reato rispetto ai minori di diciotto anni che hanno sperimentato altre misure rispetto alla messa alla prova (tra cui il carcere), registrando un tasso di recidiva del trentuno per cento. La misura ha trovato applicazione crescente negli ultimi tre decenni: se nel 1992 si registravano 788 provvedimenti di messa alla prova, nel 2021 se ne contano ben 4.634.
Non è solo l’efficacia dello strumento in termini di recidiva che ha stimolato questo processo, ma probabilmente anche una maggiore sensibilità dei giudici. «Il punto è che una pena che prescinde dal carcere acquisisce più senso nella vita dei ragazzi», osserva Miravalle: «Nel momento in cui, invece, avviene l’ingresso in carcere assistiamo al deterioramento delle loro condizioni di vita, di salute e anche dei loro percorsi». È la descrizione di un carcere punitivo più che riabilitativo che «aggrava i percorsi di devianza – aggiunge il referente di Antigone – e incattivisce i ragazzi. Ecco perché, pur biasimando il gesto, capisco la voglia dei ragazzi del Beccaria di fuggire da quel posto, perché sono luoghi che hanno poco o nulla di costruttivo nel percorso di vita di un ragazzo».
Costruire o, meglio, ricostruire. Se persino il Beccaria di Milano, considerato uno dei migliori istituti penitenziari per minorenni, non riesce più a rispondere a questa missione, è bene che siano altre le strade da intraprendere. In Italia a fronte di diciassette Ipm, ci sono 637 comunità residenziali per minori o giovani adulti sottoposti a provvedimenti penali. In queste strutture vengono eseguite prevalentemente misure cautelari (meno afflittive del carcere), ma anche provvedimenti di messa alla prova. Una parte residua dei ragazzi in comunità, infine, proviene dagli Ipm perché ha ottenuto un alleggerimento della misura penale.
«Quando le comunità lavorano bene creano quei prerequisiti e quelle condizioni per far maturare il ragazzo e introdurlo alla vita sociale, lavorativa e pubblica», spiega don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayròs di Vimodrone, in provincia di Milano. Una realtà di eccellenza nel panorama italiano che, negli ultimi vent’anni, ha accolto decine di ragazzi in difficoltà riuscendo ad entrare «con discrezione nelle loro vite» e avviandoli a percorsi di crescita personali e professionali. Da qui, ad esempio, sono passati esponenti della scena trap contemporanea come Sacky e Baby gang che, con la loro musica, hanno descritto il disagio che li ha inghiottiti nel circuito penale. Merito di persone come don Claudio Burgio, aperte all’ascolto e disponibili ad assecondare passioni e inclinazioni dei ragazzi.
«È importante – prosegue don Burgio – che la comunità conservi quello che la parola communitas significa: un modello di vita dove l’uno aiuta l’altro. È indispensabile che in queste strutture operino educatori capaci di evitare che le dinamiche di gruppo, in cui spesso agiscono questi adolescenti, non si ripropongano anche qui perché rischierebbero di inficiare il loro percorso di crescita». Anche le comunità, proprio come il carcere, attraversano difficoltà: «Ci sono comunità che fanno un lavoro egregio – riconosce Miravalle –, ma esistono anche “comunità parcheggio” che non offrono quel quid in più alla vita del ragazzo. Bisognerebbe iniziare a fare questa distinzione».
Tuttavia, a differenza degli Ipm, le comunità sono naturalmente inclini a valorizzare la persona, accompagnandola in un percorso di rielaborazione del reato commesso. Questo è possibile anche perché la durata media di permanenza in comunità è superiore a quella in carcere che spesso si limita ad essere un luogo di transito di qualche mese. Sono forme alternative al modello detentivo i cui numeri ne certificano l’efficacia. «È per questo che l’Italia deve essere orgogliosa del proprio sistema di giustizia minorile invece di minarlo con proposte repressive come l’abbassamento dell’età per l’imputabilità o il maggiore ricorso al carcere per i minorenni», osserva Miravalle. Sono proposte «mai messe a terra – specifica – ma che girano nell’aria e rischiano di dare forti picconate al nostro sistema che, invece, dovrebbe essere ulteriormente migliorato laddove necessario».
In tema di prevenzione del reato, per esempio, l’esponente di Antigone rievoca «l’educativa di strada» che in Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta, rappresentava un efficace modello preventivo nell’ambito dei servizi sociali e che oggi potrebbe ritrovare applicazione nel contrasto a fenomeni devianza giovanile come le baby gang, bande di giovani (tra i quindici e i diciassette anni) dedite alla violenza che, negli ultimi cinque anni, sono cresciute in tutte le regioni italiane, come chiarito dal report “Le gang giovanili in Italia” realizzato dal Centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica. «Dovrebbero essere gli educatori a cercare i ragazzi nei luoghi del disagio – dice Miravalle –. Non bisognerebbe aspettare, invece, che i ragazzi arrivino in carcere o nelle comunità per essere recuperati».
E poi, sul piano normativo, l’auspicio che l’Italia si doti di un codice penale per minorenni «perché un reato commesso dai minori non può essere trattato nello stesso modo di un reato commesso dagli adulti». È una richiesta che Antigone rinnova ormai da tempo. Per fare un esempio, «il furto in un supermercato commesso da un minorenne ha un significato sociale diverso dallo stesso furto commesso da un adulto», conclude Miravalle.