Si parla così tanto di italianità che sembra di essere tornati ai tempi in cui la Lega era quella delle ampolle con l’acqua del Po, mica quella di qualunque-cosa-sia-oggi. Si parla così tanto di italianità che temo la deriva americana: vi prego, conserviamo quel po’ di senso del ridicolo che non ci fa prendere sul serio la commozione per l’inno.
La cosa più italiana che c’è è il vino, sbraitano quelli, furibondi perché l’Europa vuole svelare che benissimo non fa. Ora, sui «nuoce gravemente alla salute» che forse verranno apposti sulle bottiglie di barolo ci sono solo due cose da dire, e nessuna delle due è come-vi-permettete.
La prima è una notazione estetica: la bruttezza dei pacchetti di sigarette con foto di feti storpi e metastasi ai polmoni è una roba da arresto. Abbiamo avuto Bernini, e ora abbiamo pacchetti di sigarette inguardabili e copertine di libri pure peggio. Che fine ha fatto il senso estetico italiano? Se continuiamo così, cominceremo a scuocere gli spaghetti.
È evidente che etichette simili sulle bottiglie di vino farebbero rivoltare nella tomba Giacomo Bologna (era quello dei vini Braida, lo specifico perché nel carattere italiano c’è anche avere Google rotto). Potrebbero però far desistere l’incubo d’ogni donna: il commensale che guarda ispirato la bottiglia e ti domanda riscontro dei sentori di marasca. Non lo so se ha i sentori, caro, sono distratta dalle foto delle metastasi sull’etichetta.
La seconda e più importante questione attiene alla proibizione. Viviamo in una dementissima epoca montessoriana in cui si è perso il senso di quanto siano attraenti i divieti. Pensiamo che tutto vada incoraggiato, dal consumo del vino (non fa male, come potrebbe, è italiano) alle visite ai musei (gratis, anzi vi diamo dei soldi noi per venirci, e poi facciamo comunicati trionfali sul milione di visitatori non paganti).
Credete che abbia passato gli anni del liceo perpetuamente sbronza perché la vodka alla pesca era una prelibatezza il cui consumo veniva incoraggiato? Ce li ho passati perché, pur senza appiccicarci etichette, che l’alcol non fosse caldamente raccomandato era chiaro (era il Novecento, era una società di adulti, non so se ve la ricordate).
Credete che togliendo il cellulare ai vostri figli torneranno a leggere Stendhal sotto le coperte illuminando le pagine con una torcia come facevate voi? (Cioè, come faceva l’immagine di voi che avete con revisionismo autobiografico pittato: in realtà leggevate Il monello). Noi leggevamo perché non c’era altro da fare, mica perché eravamo virtuosi. I turisti vanno nei musei perché arrivano nelle città straniere e non hanno abbastanza uso di mondo da saper cosa fare, mica perché sono intellettuali.
I musei a pagamento sono pieni in tutto il mondo. I concerti, ultimo passatempo culturale per cui perfino la borghesia più ignorante d’Europa è disposta a pagare, sono tutti esauriti, e hanno biglietti da cento euro. I teatri, dove si entra con quindici euro, sono vuoti. Il cinema, dicono gli zelanti commentatori dell’internet locale, costa troppo: per quello la gente non ci va. Negli Stati Uniti ci vanno e costa il doppio, però. Rai3 ha trasmesso un documentario sulla comicità anni Ottanta. Dentro c’è un Benigni di quarant’anni fa che parla delle ottomila lire che costa il biglietto del cinema. Pensiamo possa costare lo stesso quarant’anni dopo?
«Gratis» non funziona. «Gratis» significa che non vale niente (lo so: quest’articolo lo state leggendo gratis; spero che almeno ve ne vergogniate un po’; è altresì vero che il fatto che sia gratis gli permetterà di raggiungere qualcuno che mi scriverà che si scrive «vergognate», senza «i»: tutti italianisti, oltre che tutti sommelier).
Ma torniamo all’italianità, al carattere di chi non vuole pagare neanche il biglietto per “Top Gun”, figuriamoci quello per vedere i quadri di gente morta. Non è italiana, ho appreso nelle ultime settimane, l’etichetta «cancerogeno» sui vini, ma neanche la farina di cavallette o l’uso della lingua inglese; in compenso è molto italiano Dante, conteso tra gli «era dei nostri» di destra e di sinistra.
Scusate, ma persino io, che al liceo ho passato più tempo a limonare che a studiare, mi ricordo che Dante era in esilio; me lo ricordo perché ogni volta che mi pare di non avere abbastanza tempo e concentrazione per scriver le mie stronzate penso: quello ha scritto la Divina Commedia da latitante.
Persino io mi ricordo «non donna di province, ma bordello», detto del paese a forma di scarpa in cui ci troviamo ad abitare. Mi distraggo un attimo e Dante mi diventa patriota. Chiara Ferragni, invece, l’italiana più famosa nel mondo, evidentemente antipatriottica: la scritta femminista sulla maglia che indossava all’annuncio sanremese era in inglese.
Certo, bisognerebbe spiegare che gli involtini primavera li mangiamo anche se non li cucinavano le nostre nonne e l’inglese è un esperanto senza il quale dove vuoi andare, in questo secolo; ma è difficile spiegarlo a gente che abita nei ministeri romani, in una città che considera il sushi un’esotica novità.
«Onorevole, vada avanti»: qualunque politico in difficoltà nella storia d’Italia ha giurato a qualche intervistatore che la gente lo ferma per strada per dirgli questa frase. Non importa se sia vero o no: importa che l’ultimo cui l’ho sentita riferire è Aboubakar Soumahoro, nello studio televisivo di Floris. Ha anche detto che i detrattori ce l’hanno con lui perché ha comprato casa, «vi andavo bene fin quando vivevo nei sottoboschi e pagavo un affitto». In quanto affittuaria (in quanto sottobosco) dovrei offendermi, ma sono invece lieta d’aver trovato la risposta definitiva alla questione. Il carattere italiano, quello fatto di nebulosità etica, vittimismo, mitomania, e feticcio della proprietà immobiliare, quel carattere lì è incarnato dal Soumahoro molto più di quanto lo sarà mai dall’Alighieri.