Tener-a-menteLiberiamo d’Annunzio dagli schemi ottusi, cercava la bellezza ovunque la trovasse

Ricorre il centenario della donazione allo Stato italiano del Vittoriale, visitato ogni anno da trecentomila persone. Il presidente Giordano Bruno Guerri, al quarto mandato, racconta l’eredità di un poeta in rapporto conflittuale con Mussolini, né di destra né di sinistra, perché si sentiva superuomo

Veduta aerea del Vittoriale degli italiani
Foto: Facebook/Vittoriale degli italiani

«Come la morte darà la mia salma all’Italia amata, così mi sia concesso preservare il meglio della mia vita in questa offerta all’Italia amata». Con queste parole Gabriele d’Annunzio chiudeva, il 22 dicembre 1923, l’atto di donazione «al popolo italiano» del Vittoriale, di cui ricorre quest’anno il primo centenario. Immerso in un parco, riconosciuto nel 2012 il «più bello d’Italia», scrigno di tre milioni di pezzi d’archivio, trentatremila volumi e ventimila oggetti d’arte raccolti dal poeta-scrittore, il complesso monumentale di Gardone Riviera è con i suoi quasi trecentomila visitatori l’anno la Casa Museo più visitata al mondo.

Il merito di tale primato va ascritto all’impegno e alla passione di Giordano Bruno Guerri, che è al quarto mandato quinquennale di presidente del Vittoriale degli Italiani. Sotto la sua guida il luogo dell’ultima dimora del Vate si è arricchito del Museo d’Annunzio Segreto e del Museo d’Annunzio Eroe, di opere d’artisti dal calibro di Ettore Greco, Mimmo Paladino, Arnaldo Pomodoro, Ugo Riva, Jacques Villeglé, Velasco Vitali, del festival annuale Tener-a-mente con l’esibizione di grandi nomi della musica, del teatro, del cinema, della danza quali, ad esempio, Eleonora Abbagnato, Giorgio Albertazzi, Burt Bacharach, Joan Baez, Franco Battiato, Jeff Beck, Stefano Bollani, Johnny Depp, Ludovico Einaudi, Ben Harper, Michael Kiwanuka, Diana Krall, Lou Reed, Patti Smith.

Di Vittoriale e di d’Annunzio, di cui Guerri è tra i maggiori esperti, abbiamo appunto parlato con lui nel corso d’una conversazione telefonica caratterizzata da competenza, stile vivace, battuta pronta. E casualmente intercorsa venerdì, 17 febbraio, giorno dell’uccisione di Giordano Bruno, in una sorta di ricorrenza onomastica per lo storico e intellettuale toscano. «Gli altri anni – così esordisce – ero sempre a Campo de’ Fiori a ricordarlo».

Cento anni dalla donazione del Vittoriale: perché un tale gesto e quale il significato ancor oggi attuale?
D’Annunzio intese fare questo dono al popolo italiano – lo Stato fu solo un mediatore –, per celebrare la sua vita e l’eroismo italiano durante la Prima guerra mondiale, offrendo al contempo un ricordo di bellezza, cultura, storia. È stato uno straordinario dono contrariamente alla leggenda d’un Mussolini che avrebbe in realtà coperto d’oro d’Annunzio. Magari i governi italiani facessero degli affari simili. Nel corso degli anni Mussolini ha infatti dato per l’edificazione del Vittoriale l’equivalente attuale di dieci milioni di euro.
Possono sembrano tanti ma non lo sono affatto, se si tiene in conto che oggi sul lago di Garda si compra con quella somma solo una bella villa con piscina. Noi qui abbiamo invece il valore inestimabile di dieci ettari di terreno preziosissimo, il parco più bello d’Italia, una mole immane di oggetti d’arte, libri – molti dei quali annotati dallo stesso poeta –, documenti d’archivio, compulsati annualmente da circa duecento studiosi. Oltre ai circa trecentomila visitatori paganti l’anno, manteniamo l’economia d’un intero paese dando lavoro non solo direttamente a quarantatré persone, ma anche a un centinaio di collaboratori e ai numerosi ristoranti, bar, alberghi della zona. Insomma, il dono di d’Annunzio è stato veramente tale.

A proposito di Mussolini quale furono esattamente la posizione e il giudizio del Vate sul capo del fascismo e sul fascismo stesso?
D’Annunzio sapeva che Mussolini l’aveva ingannato ai tempi di Fiume, promettendogli ogni possibile forma d’aiuto da parte delle sue camicie nere. È opportuno ricordare che ne aveva accettato la collaborazione nel settembre del ’19, quando cioè il fascismo era un movimento rivoluzionario orientato a sinistra – come dimostra il documento di nascita, Il programma di San Sepolcro, contro il Vaticano, la monarchia, il regio esercito, il capitale –, non già, dunque, quello che sarebbe poi diventato in seguito. Ora Mussolini non solo non diede alcun aiuto concreto all’impresa fiumana, ma fece addirittura la spia informando Giolitti, tramite il prefetto di Milano, delle intenzioni di d’Annunzio.
Il Vate questo lo sapeva bene: fece però l’errore, secondo me, di non denunciare pubblicamente la cosa, portandola nel cuore per tutta la vita con una vera e propria diffidenza verso Mussolini. Diffidenza non smentita affatto dalle sue lettere apparentemente cordiali, che in realtà, come ha rilevato Renzo De Felice nell’introduzione al Carteggio d’Annunzio-Mussolini, erano ironiche. Se nutriva una forma di rispetto verso il demiurgo che, conquistando l’Italia, aveva conseguito quanto a lui non era riuscito, mai l’ebbe e in nessun modo verso il fascismo, tanto da chiamare le camicie nere «le camicie sordide». Disapprovava tutto quello che il regime faceva, a eccezione dell’impresa d’Etiopia che da buon nazionalista apprezzò.

Molto s’è scritto e parlato del rapporto tra lo scrittore e le donne, poco o nulla, invece, di quello con maschi. Tenendo anche in conto di quanto successo nella Fiume del ‘19-‘20, si può ritenere che la visione dannunziana dei rapporti omosessuali fosse positiva e rientrasse nella sua concezione ludica, ispiratrice d’arte, catartica della sessualità in generale?
D’Annunzio aveva un assoluto rispetto dell’omosessualità. Forse sarebbe meglio dire che aveva un sano atteggiamento di non considerazione, ritenendo che ognuno potesse fare quanto vuole secondo il proprio orientamento e i propri desideri. Non a caso uno degli uomini a lui più caro era Guido Keller, di cui conosceva benissimo l’omosessualità. Orbene, non solo lo nominò capo della sua guardia, ma lo volle poi sepolto nel mausoleo del Vittoriale insieme ad altri nove amici ed eroi. Credo che, in ultima analisi, l’atteggiamento di d’Annunzio verso l’omosessualità era quello di non problema e, come tale, non bisognoso di discussione.

Fiume e la Reggenza italiana del Carnaro rimandano anche all’atteggiamento di apertura della Santa Sede, che nominò un amministratore apostolico nella persona di Celso Costantini. Quale fu la posizione di d’Annunzio verso Oltretevere e, più in generale, verso il cattolicesimo?
Va detto innanzitutto che lui aveva un grande rispetto del sacro. Ne è plastica riprova qui al Vittoriale la Sala delle Reliquie, dove ci sono reliquie, immagini, simboli delle diverse fedi: buddismo, induismo, cristianesimo, religione del coraggio… Il sacro nel cattolicesimo, e più in generale nel cristianesimo, ha tutto il suo amore e rispetto, anche perché hanno creato bellezza. D’Annunzio andava a cercare la bellezza ovunque la trovasse. E ne ha trovata molta nelle chiese e nelle varie manifestazioni artistiche del cristianesimo. Aveva poi un particolare attaccamento per la figura di Francesco d’Assisi, che era il suo santo prediletto.
Da qui le invettive contro la Chiesa cattolica, cui rimproverava atteggiamenti poco francescani. In questo mi piace accostarlo a Ernesto Buonaiuti, su cui ho scritto un libro recentemente riedito col titolo “Eretico o Santo”: pur non citandolo mai, credo che d’Annunzio si riconoscesse nelle posizioni buonaiutiane di ritorno della Chiesa al Vangelo. Era inoltre contrario al Concordato da un punto di vista dello Stato. Ciò detto, sbaglierebbe chi considerasse d’Annunzio un anticlericale, non essendoci mai state in lui manifestazioni d’anticlericalismo. Basti pensare che aveva addirittura corrispondenza con padre Pio e che qui al Vittoriale circolavano frati, sacerdoti, monsignori. Frequenti poi le sue visite al vicino convento dei cappuccini di Barbarano di Salò, che anzi finanziava con doni molto generosi.

Col suo linguaggio immaginifico d’Annunzio fu l’artiere della parola per antonomasia, coniando numerosi vocaboli e richiamando in vita quelli disusati. Di fronte a una diffusa barbarie linguistica non crede che sarebbe opportuno rifarsi all’esempio del Vate a partire dalle modalità nel formulare neologismi?
In molti casi non c’è bisogno di formulare neologismi. Quando, ad esempio, mi dicono: «Aspetto un feedback», sono solito rispondere: «Scusi, cosa aspetta?» Personalmente trovo ciò insopportabile, avendo l’italiano una parola chiarissima quale riscontro. Diverso è il caso di termini provenienti da altre lingue e intraducibili, che lo stesso d’Annunzio utilizzava senza alcuna difficoltà. Si prenda, ad esempio, sport. Per il resto si divertiva sapientemente a trovare alternative. Il caso più famoso è tramezzino, anche se io preferisco, perché più carina nonché dal richiamo erotico, la formulazione di Marinetti traidue. In realtà, d’Annunzio, più che inventare le parole, le pescava nell’italiano antico oppure le recuperava dal latino, dal greco. Oggi avremmo davvero tanto bisogno del suo contributo linguistico.

Il Vate è diventato nel tempo uno degli intellettuali di riferimento della destra, laddove la sinistra ne ha invece deprezzato la figura e l’opera. Non sarebbe forse ora di liberarlo da tali etichette politicizzanti e anguste?
Beh, come noto, io ci sto lavorando da quasi vent’anni, prim’ancora di diventare presidente del Vittoriale. La mia operazione è di liberare d’Annunzio dagli schemi ottusi che lo circondano. Uno schema ottuso appartiene alla destra, facendone un campione e un progenitore del fascismo, che certo non fu. Altro schema ottuso è quello della sinistra, che non ne ha capito la potenzialità di modernizzatore e innovatore, dando soprattutto prova di non aver mai letto la Carta del Carnaro. Basterebbe quella perché la sinistra dica: «Ecco è uno dei nostri». In realtà, d’Annunzio non apparteneva né alla destra né alla sinistra. Un superuomo, infatti, non può appartenere a un’ideologia né tantomeno a un partito politico. E d’Annunzio era e si sentiva un superuomo.

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