Partner privilegiatoDalla sicurezza all’economia, la presenza cinese in Africa è sempre più radicata

Nel 2022 gli scambi commerciali di Pechino con il continente hanno raggiunto quota 282 miliardi di dollari. Le relazioni sempre più strette hanno anche conseguenze politiche: molto spesso i leader di vari Stati del continente sono quelli che hanno ricevuto formazione politica da funzionari del Partito comunista

AP/Lapresse

Repubblica popolare cinese, 1960. Piena guerra fredda. All’accademia militare di Nanchino c’è uno studente straniero. Si chiama Emmerson Mnangagwa e viene dall’Africa. Oggi, quello studente è il presidente dello Zimbabwe. Per capire come la Cina sia riuscita a costruire una presenza capillare e dominante in Africa non basta affidarsi alle cronache degli ultimi mesi o anni. Pechino ha iniziato a puntare sui rapporti con quel continente da ormai sessant’anni. Da lungo tempo, la prassi vuole che l’anno diplomatico cinese si apra con un viaggio del ministro degli Esteri in Africa. Tradizione in qualche modo anticipata nel 1965 dall’allora premier Zhou Enlai con il suo arrivo in Tanzania, e proseguita con meticolosa costanza sino a questo 2023 con il tour di Qin Gang, fresco ex ambasciatore a Washington e nuovo ministro degli Esteri.

Si è spesso abituati a sottolineare la rilevanza dell’Africa per la Cina sotto il profilo commerciale e dell’accesso alle materie prime. Non un caso, visto che la maggior parte dei Paesi del continente ha proprio in Pechino il primo partner nell’interscambio. Ma, mai come altrove, la presenza cinese arriva anche a toccare la sfera politica.

La Cina intrattiene infatti rapporti con ben ottantuno partiti politici africani, un po’ a tutte le latitudini del continente. Tra i legami storicamente più noti c’è quello con l’African National Congress in Sudafrica. Ma, secondo le relazioni sono approfondite anche con il Fronte Patriottico dello Zimbabwe, il Partito del Lavoro della Repubblica Democratica del Congo, il Movimento di Resistenza Nazionale dell’Uganda e il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope. Quasi tutti partiti al potere, anche se negli ultimi anni sono aumentati gli scambi anche con le forze di opposizione, in particolare nei Paesi dove gli equilibri politici sono più incerti: succede per esempio in Ghana e in Zambia.

All’interno di queste relazioni ci sono talvolta aiuti finanziari ma molto spesso un sostegno nella formazione politica. Il Partito comunista cinese è spesso stato preso come un punto di riferimento. Non solo e non tanto a livello ideologico, ma anche per la retorica terzomondista di Mao Zedong che vedeva la Repubblica popolare ergersi a guida di quello che oggi viene definito mondo «in via di sviluppo».

Come dimostra l’esempio di Mnangagwa, sono parecchie le figure politiche africane ad aver ricevuto formazione politica da funzionari cinesi oppure da istituti dei partiti africani nell’orbita di Pechino. È il caso della nuova scuola di leadership intitolata all’ex presidente della Tanzania Julius Nyerere, l’uomo presente all’aeroporto di Dar es Salaam per ricevere Zhou Enlai nel 1965. Secondo il South China Morning Post, la scuola avrebbe ricevuto fondi per quaranta milioni di dollari dalla Cina.

Ciò non significa che il Partito comunista imponga il suo stile di governo. Anzi, come noto, la Cina è estremamente duttile e coopera con chiunque le apra la porta, siano governi di destra o di sinistra – per utilizzare una definizione della politica occidentale. Ma l’influenza politica c’è comunque e si traduce spesso in un pacchetto di voti utile da “spendere” presso gli organismi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite.

Soprattutto dopo la pandemia di Covid-19, Pechino ha smussato la sua retorica sulla Belt and Road Initiative – sebbene il progetto sia tutt’altro che accantonato – rafforzando quella invece su stabilità e sicurezza. Non a caso, nel 2022 Xi Jinping ha lanciato la neonata Global Security Initiative, ombrello con il quale la Cina si presenta come garante di stabilità. Da una parte economica, attraverso commercio e investimenti, dall’altra parte sociale e dunque politica. Ne sono un esempio alcuni accordi di sicurezza firmati con dei Paesi del Pacifico meridionale, in primis le Isole Salomone, dove il governo centrale cercava tutela esterna di fronte alle recenti rivolte della provincia di Malaita.

Da questo punto di vista, in Africa la presenza cinese è più radicata. Non solo perché a Gibuti c’è la prima e per ora unica (quantomeno a livello ufficiale) base militare cinese all’estero. Ma anche perché diversi Paesi utilizzano strumenti tecnologici made in China utilizzabili anche per il controllo sociale.

Negli anni, lo Zimbabwe ha adottato il riconoscimento facciale di CloudWalk, altri Paesi quello di Hikvision. Ma il marchio cinese è diffuso in diversi settori, a partire dalle infrastrutture: aziende di Pechino hanno costruito nel continente oltre diecimila chilometri di tratti ferroviari e autostradali. E poi decine di porti, centrali elettriche, ospedali, scuole. Nonché edifici religiosi come il minareto di Algeri e la sede dell’Unione africana di Addis Abeba, cioè il centro istituzionale africano per eccellenza.

Europa e Stati Uniti stanno provando di recente a riproporsi come alternativa, ma nel frattempo la Cina ha raggiunto una posizione talvolta dominante. Nel 2022 il gigante asiatico si è confermato il primo partner commerciale del continente con 282 miliardi di dollari di interscambio, in aumento dell’undici per cento rispetto al 2021. E Pechino non vuole certo mollare la presa, nonostante la difficile situazione debitoria di diversi Paesi, a partire dallo Zambia.

A inizio gennaio, Qin Gang ha svolto il suo primo tour africano tra Etiopia, Gabon, Angola, Benin ed Egitto, con un focus su innovazione digitale e sanità. Ma c’è come sempre grande attenzione alle notevoli risorse naturali e minerarie messe a disposizione dall’Africa, cruciali anche per il settore tecnologico.

Lo scorso dicembre è stato sottoscritto un accordo per la creazione di un collegamento ferroviario con Simandou (Guinea) sede del principale giacimento di minerale di ferro in Africa. La Cina domina nettamente anche l’estrazione di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo, che da sola possiede circa il cinquanta per cento delle riserve globali. Si tratta di un materiale fondamentale per lo sviluppo delle auto elettriche, settore in cui non a caso le aziende cinesi sono leader. Sempre nelle ultime settimane, via ai lavori in un grande giacimento petrolifero nell’Uganda occidentale con il coinvolgimento di due società statali cinesi, la Offshore Oil Engineering Co. e la China Petroleum Engineering & Construction Corp.

Dopo anni di azione sostanzialmente indisturbata, l’Occidente torna ora a osservare quanto accade in Africa. I Paesi del continente lo sanno e provano a trarne vantaggio. Secondo il Wall Street Journal, il Kenya ha chiesto agli Stati Uniti di pagare per l’espansione di una base antiterrorismo congiunta da cui agire contro al-Shabab, organizzazione affiliata ad al Qaeda. I funzionari americani sarebbero preoccupati dall’eventualità che in caso di rinuncia il governo di Nairobi possa rivolgersi a imprese di costruzioni statali cinesi. E loro, di dubbi, ne avrebbero probabilmente molto pochi.