Se permettete parliamo di Ragazze Ricche. No, non di me – cioè, non subito. Parliamo del fatto che il Pd ha una nuova segretaria (dovremo smetterla col riempimento automatico «ma come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati»), e che quella segretaria è innanzitutto una Ragazza Ricca.
Prima che arrivino i non comprenditori di testo e tono (l’unica vera maggioranza stabile in questo povero secolo), e mi ammazzino di noia dicendo «ha 37 anni, non è una ragazza, solo in Italia sei ragazza in eternoooo», esplicitiamo le citazioni (cosa mi costringete a fare, santiddio).
No, la Ragazza Ricca non è il femminile di Anson Hunter, il ragazzo ricco del racconto di Scott Fitzgerald. Cioè, può esserlo: Anson Hunter aveva il complesso di superiorità dei nati ricchi, e in effetti solo quel genere di complesso può farti pensare che non ti schianterai al primo dibattito con Giorgia Meloni – ma non è questo il riferimento letterario che m’interessa.
«Amava la vita e l’allegria, era del tutto ineducata, scriveva l’italiano con incredibili errori di ortografia, era follemente generosa sia con gli amici che con gli estranei. Sempre, e fondamentalmente, era una ragazza»: l’istantanea con cui Susanna Agnelli la descrive così è di quando sua madre – Virginia Boubon del Monte, vedova Agnelli – ha trentacinque anni.
Non importa che fosse «praticamente squattrinata»: era la madre degli eredi Agnelli, non aveva mai dovuto lavorare un giorno in vita sua o lavare i panni al fiume. Era una Ragazza Ricca.
Quando domenica mattina mi sono svegliata e l’iPad non si connetteva alla rete, non ho capito la notizia (tu quando arriva una notizia ti scansi, mi disse un giorno un giornalista: quanta ragione aveva). Avevo guardato due ore e un quarto di Elly Schlein intervistata da un tizio che non conoscevo per verificare se dicessero il vero quelli che sostenevano che la candidata alla segreteria del Pd ignorasse la differenza tra «energia» ed «elettricità» (dicevano il vero), ma non ho comunque collegato.
Il wifi non andava perché l’elettricità era saltata, e io non l’ho comunque preso per un segno. Neanche quando qualcuno mi ha fatto presente che, comunque andasse, il prossimo segretario del Pd sarebbe stato un emiliano, neanche allora ho capito. Ho solo borbottato, come al solito, che mai s’è visto un popolo così di scemi che si spacci con tanto successo per popolo di geni: neanche gli americani hanno un ufficio stampa buono quanto gli emiliani.
Poi la Ragazza Ricca ha vinto le primarie, e amiche furibonde (sì, ho amiche cui interessano i destini del Pd: mi piace la nicchia) mi hanno telefonato chiedendomi cosa diamine fosse «il femminismo linotipista, ciclotimico, come si chiama» (intendevano: intersezionale). Mentre spiegavo che è un femminismo che dice che se sei femmina e bianca sono cazzi, ma se sei femmina e gialla sono cazzissimi, ho pensato: ma femmina e ricca fa meno punteggio, no?
Epperò una ventitreenne non Ragazza Ricca mica potrebbe andare a fare la volontaria nella campagna di Obama. E d’altra parte solo una Ragazza Ricca può baloccarsi coi pronomi e altre questioni tipiche d’un mondo abbastanza pasciuto da aver risolto i problemi essenziali e potersi dedicare all’arredo d’interni.
Il tizio che non conoscevo, quello dell’intervista da due ore e un quarto, m’è parso molto meglio degli intervistatori medi dei mezzi di comunicazione classici noti a noi adulti. Certo, nonostante l’accento sardo sembrava fosse cresciuto all’estero e avesse imparato l’italiano su Google Translate, coi suoi modi di dire in doppiaggese quali «se devo mettermi nelle scarpe di altre persone», ma almeno obiettava a qualcuna delle puttanate di Schlein, almeno alle più gigantesche (lui direbbe: super; lui e Schlein sono due quasi quarantenni il cui lessico rispecchia la scelta di rivolgersi a quelli che usano «super» come unico accrescitivo, a quelli più facili da intortare: i ventenni).
«Fammi fare l’avvocato del diavolo», premetteva per attutire l’obiezione, quando Schlein diceva che dovevamo rinunciare all’elettricità e darla agli africani poveri: «Non è colpa mia, il Chad». È stato lì che ho capito che aveva ragione quel mio amico: ha, purtroppo, vinto la sinistra bolognese.
Quella che tra le obiezioni non prevede il «non me ne devo occupare io». Quella che ti rende difficilissimo buttare la spazzatura nei cassonetti, certa che tu, cittadino sinceramente progressista, vorrai e potrai ogni settimana sacrificare ore del tuo tempo a compattare i rifiuti. Che di fianco a ogni cassonetto bolognese ci siano mucchi di spazzatura non dice a chi governa che la più parte dei cittadini non sia disposta a fare il lavoro per cui paga una tassa sull’immondizia.
Perché, a parole, siamo tutti civili, e io non sento altro che bolognesi medi riflessivi che dicono che certo, è nostra responsabilità, e chissà questo ceto responsabile come produce la città più zozza d’Italia, sarà quel problema dei nonni tutti partigiani d’una nazione che vota tutta a destra.
Quando Schlein dice «non esiste giustizia sociale senza giustizia climatica» è proprio quella roba lì, bolognese di buone intenzioni e pochissimo senso pratico; io, che buone intenzioni pochissime, penso che in effetti per i poveri è un doppio guaio: non possono permettersi l’aria condizionata.
Quando dice «il caro energie in una società così diseguale colpisce più duramente le fasce di reddito più basse», vorrei tanto chiederle in quali società pensa che il rincaro d’un prezzo non lo soffrano di più i poveri. Sembra quella direttrice media riflessiva di newsmagazine (ora che ci penso, anche lei era il primo direttore donna di newsmagazine: a grandi traguardi simbolici non sempre corrispondono grandi sostanze) che sospirava sui reportage dall’Africa: come sono belli questi bambini poveri.
Vi direi che da quell’intervista si capiva l’imminente vittoria generazionale perché a un certo punto Schlein faceva una battuta sull’acronimo «cbcr», e la sala rideva e io pure; ma il suo intervistatore, suo coetaneo, «cresci bene che ritorno» non l’aveva mai sentito dire. Quindi non era una cosa di scuole del Novecento: era una cosa di scuole bolognesi.
D’altra parte la conversazione tra i due mi ha dato un altro elemento di riflessione sul tema che in questo momento m’interessa di più, che incredibilmente non è il futuro del Pd ma la falsa coetaneità. Schlein era all’asilo quand’io ero al liceo: allora c’era una distanza enorme tra di noi, ma a un certo punto si è tutti adulti, tutti fintamente coetanei. Però Alessandro Masala (l’intervistatore) e lei parlano con nostalgico struggimento di Fantaghirò, e io a stento so cosa sia; loro erano alle elementari e io vivevo da sola e uscivo tutte le sere: certi divari generazionali sono per sempre.
Come è per sempre la sinistra bolognese, fatta di rassicuranti panzane («La società più sicura, ce lo insegna la storia d’Italia, è quella più inclusiva, che non marginalizza», dice Schlein, e io penso: ma la storia di quando, che nella brevissima storia d’Italia prima di ora c’erano i cartelli «non si affitta ai meridionali»?); fatta di generiche rassicurazioni che dicano che noi siamo i buoni, mica come risolvere i problemi specifici.
Masala le chiede della flat tax e di spiegare perché dovrebbe votarla quella classe media che poi si ritroverebbe a pagare più tasse, «ognuno vota col portafoglio», e lei, giuro, risponde «non mi convincerai comunque a essere contro i migranti». Sembra miss Italia che vuole la pace nel mondo, e il perché due settimane dopo vinca le primarie lo si capisce all’inizio della registrazione.
Quando Masala esce sul proscenio e ringrazia la platea del teatro per essere lì mentre alla tv c’è Sanremo. È una platea milanese, ma la sinistra bolognese è una categoria urgeografica: la sinistra urbolognese. Quella che Sanremo per carità, stasera vado a teatro a sentire cosa dice la Elly. Quella che si percepisce colta dicendo, come fosse il 1982, «io la tv neppure ce l’ho». Però ho l’abbonamento a teatro: ah, davvero i poveri non possono permetterselo?