Sussidiari illustratiNessuno ha più voglia di fare fatica a leggere, scrivere o altro (per fortuna c’è Paola Mastrocola)

Il tempo in cui viviamo dice che i fumetti hanno dignità di romanzo e che la letteratura che descrive le persone è indiscreta. Eppure faremmo tutti meglio a guardare i bottoni, come la protagonista di “La memoria del cielo”

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Qualche anno fa, a una tavolata alla quale si stava parlando di letteratura, la figlia adolescente di amici chiese cos’avesse scritto questo tal Proust su cui qualcuno stava dicendo qualcosa. Le dissi che non le sarebbe piaciuto citando non ricordo più chi (Gide? Vatti a ricordare) che l’aveva scartato dicendo che non capiva come potessero servire decine di pagine per raccontare come ci si rigirava nel letto insonni.

La ragazza fece la faccia raccapricciata di quella che pensa che leggere decine di pagine di descrizione sia un compito che la scuola ti costringe a fare, mica un divertimento cui qualcuno può assoggettarsi volontariamente.

Mi è tornato in mente leggendo su Herd un saggio di Mary Gaitskill sulla scrittura, in cui l’autrice racconta due episodi che coinvolgono due scrittori ospiti di corsi organizzati da lei. Il primo è di più di vent’anni fa. La Gaitskill suggerisce di mettersi nei panni del personaggio fisicamente, e osservare cosa osserva il personaggio fuori dalla sua finestra. E George Saunders sbotta: «Ma chi è che guarda fuori dalla finestra e riflette sugli alberi? Solo la gente nei libri».

Quattro anni fa, invece, ad andare a parlare coi suoi studenti è stata Joyce Carol Oates, della quale mi piace sempre ricordare la definizione data da Gore Vidal («Le tre parole più noiose della lingua inglese sono Joyce Carol Oates»).

Il testo di studio era un libro di John Updike che per gli studenti era ostico, spiega Gaitskill, «un po’ perché era sessista e razzista, un po’ perché le descrizioni erano molto dense». Era come Proust a quella cena: studenti stremati alla sola idea di pagine e pagine e pagine a descrivere cosa vede un personaggio fuori dal finestrino mentre guida.

La sentenza di JCO riportata da Gaitskill fu qualcosa come: sì, John era in grado di descrivere tutto e tutti, ma nessuno vuole più leggere quella roba, perché il mondo è andato avanti. Prego?, si chiede Gaitskill e mi chiedo pure io. Cos’altro dovrebbe fare la letteratura se non descrivere cose? (E lo dico avendo una passione per i dialoghi, che però non sono forse descrizioni con più a capo?).

Secondo Gaitskill è colpa dei cellulari: guardiamo quelli invece del mondo, e quindi non ci viene in mente di descriverlo. Mi viene in mente una volta in cui mio padre mi portò in Sudafrica e, sulla strada dall’aeroporto all’albergo, mentre leggevo chissacché, mi disse: sei l’unica al mondo che arriva in un posto nuovo e non guarda fuori dal finestrino. (Pensa se avessi avuto un cellulare invece d’un libro).

Gaitskill ha chiesto agli studenti come mai non descrivano i loro personaggi. Uno ha risposto che descriverne l’aspetto gli sembrava una cosa maleducata, come fissare qualcuno. Un altro che per descrivere qualcuno poi devi assegnargli un valore in base agli standard estetici imposti. Insomma: se non si vede un nuovo Proust all’orizzonte, è colpa del patriarcato, non di quanto sono lontani i tempi in cui le piccole Mastrocola dimenticavano d’innaffiare i gerani perché erano rapite dalla lettura del sussidiario.

Il nuovo romanzo di Paola Mastrocola s’intitola “La memoria del cielo”, lo pubblica Rizzoli, e fa quella cosa che fanno i romanzieri quando non sono Walter Siti o Philip Roth: cambia i nomi. Abbiamo deciso che lo standard è cambiare i nomi, e quando i nomi non li cambiano la chiamiamo autofiction, che è un nome così orrendo che io mi chiedo come ci si possa accanire su apericena quando avremmo autofiction da redarguire. Comunque.

A un certo punto Donata, la bambina che faremo finta non sia Paola Mastrocola, gioca ai giardinetti. Non ne ha voglia, ma i suoi ci tengono. Ci tengono che sia come gli altri bambini, quelli che giocano, e non come è lei: una cui piace stare in casa a osservare i bottoni. «Dovendo giocare, non ero più la bambina che guarda gli altri e si guarda mentre guarda gli altri. Per non essere sgridata, diventavo una di quei bambini e, diventando una che gioca, non mi potevo più guardare. Non mi vedevo da fuori, e quindi non mi pensavo».

Chissà cosa direbbe Mary Gaitskill di questa idea che vale per noi stessi quello che vale per il paesaggio: osservarci è una fatica da studiosi e un esercizio di stile. Vale per gli alberi, vale per i bottoni. Quei bottoni che gli allievi della Gaitskill non descriverebbero per pudore, per discrezione, per non umiliare la portatrice di soprabito sbagliato.

E invece la madre di “La memoria del cielo” va da un luminare della ginecologia che le costa un patrimonio, a cercare di scoprire perché non resta incinta, e ci va attraversando la città al freddo senza cappotto, perché il suo cappotto ha un rammendo di cui si vergogna, e allora mette un soprabito troppo leggero che si chiude con un solo bottone, e quel bottone l’ha scelto con cura nella merceria del centro troppo costosa, l’ha scelto perché sostituisca i gioielli che non ha, un bottone con due buchi invece di quattro, perché due buchi fanno prezioso, ecco, quel bottone coi due buchi è già un carattere, una storia, una classe sociale e quindi un destino.

L’infanzia è destino?, continuavo a chiedermi mentre leggevo, e un po’ sarà merito di Mastrocola ma molto è un’ossessione mia, ché cerco sempre un modo efficace per smontare quella tesi ma mi sembra sempre mi manchi un pezzettino di ragionamento, e anche questa volta non mi sono saputa rispondere; ma il bottone sì, il bottone è destino, ed è un peccato che gli allievi di Gaitskill se lo perdano perché gli sembra maleducato fissare troppo a lungo i cappotti degli altri, è un peccato che alla figlia dei miei amici questo tempo dica che i fumetti hanno dignità di romanzo e non si deve incomodare a leggere descrizioni, è un peccato che non abbiamo più voglia di fare fatica: a leggere, a scrivere, a trovare il bottone giusto.