Fine mimosa maiL’8 marzo è quel giorno in cui dobbiamo ricordarci di essere come Miriam Mafai

La grande giornalista non pensava di dover mentire per conquistare i diritti, mentre oggi viene considerata femminista anche l’ultima scema che su Instagram dice che essere donne significa aver paura se torni a casa da sola la sera (ma non averne se nello spogliatoio della palestra c’è una donna coi baffi)

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«Ti senti una donna o una persona?», chiede Patrizia Carrano. «Una persona», risponde Miriam Mafai. È il 1978, i libri sono di chi li legge e non della conversazione collettiva a mezzo foto di mezza paginetta per disinformati che pretendano d’avere opinioni. Oggi, sai quanti cancelletti indignati: che alternativa è, donna o persona, le donne cosa sono, piante?

Com’è possibile che non mi ricordi mai dell’8 marzo, mi chiedo quasi ogni anno, da quando i giornali hanno smesso di chiedermi articoli sull’8 marzo (a ogni donna, in quanto donna, chiedono articoli sull’8 marzo; a quelle molto maleducate dopo un po’ smettono di chiederli), l’8 marzo pomeriggio, circondata da opinioni su come sia avere la vagina (o anche solo percepire d’averla). Com’è possibile che mi scappi la data come neanche san Valentino.

Questa volta per la verità me l’ha ricordato il parrucchiere che il 7 pomeriggio mi stava asciugando i capelli, gli ho detto che la mattina dopo dovevo andare a fare una riunione e mi ha detto passa di qua quando esci, ti regaliamo le mimose. L’ho minacciato di chiamare l’avvocato.

Ricordo come fosse ieri la volta in cui mi sono resa conto che non avrei mai potuto fare politica. Era una sera d’8 marzo a Roma, e nel ristorante in cui stavo cenando c’era un pieno di tavolate di donne evidentemente sovreccitate, per le quali uscire senza marito era evidentemente un’eccezione, e che facevano sembrare Thelma e Louise due tizie la cui disperazione era perfettamente in media. Io quelle donne lì non le conosco, non le ho mai frequentate, una volta – per un breve periodo attorno ai venticinque anni – ho avuto un’amica che se le dicevi ci vediamo domani sera ti diceva che prima di prendere impegni doveva sentire cosa facesse il fidanzato, e ancora ne parlo come d’una marziana.

Io il paese reale fatto di donne che escono con le amiche l’8 marzo non lo conosco, e non so neanche se siano loro la risposta alla domanda «che cos’è una donna?». Sono loro, o sono quelle che ogni giorno ci ricordano che siamo discriminate vessate abusate, o sono quelle che ci spiegano che se hai il cazzo e ti percepisci donna è da fasciste dirti di tener su le mutande nello spogliatoio femminile, o sono quelle che ti parlano dei figli come potessero mai essere un tema interessante, o sono quelle che dicono che senza quote rosa non andremo mai da nessuna parte, o sono le Schlein e le Meloni che senza quote rosa vanno un po’ dove vogliono?

Alla mia veneranda età mi scopro mafaiana, giacché suppongo che tutte queste categorie rispondano alla definizione di «donna», e tutte queste categorie mi fanno una gran tristezza.

«Sei un inviato o una inviata?», chiede Carrano. «Inviato. Come quando ero a Noi Donne ed ero direttore. Sono un neutro. Occupo una certa funzione che non è maschile né femminile e che ognuno risolve secondo la propria natura», risponde Mafai, che poi prosegue a dire che Giampaolo Pansa era per cedere ai terroristi perché «in fondo ha quel che tu definiresti una sensibilità femminile».

Leggevo quest’intervista, una delle dieci che nel 1978 componevano il volume Le signorine «grandi firme» (sai oggi che cancelletti indignati, «signorine» serve per sminuirle, come qualcuno potesse sminuire le intervistate, gente come Oriana Fallaci e Natalia Aspesi), e pensavo a tutte quelle direttrici di giornale per cui ho lavorato negli ultimi venti e spicci anni, quelle che guai se le chiamavi direttrice perché direttrice è quella della scuola di mia figlia, e oggi fanno grandi editoriali su quanto sia fondamentale declinare le professioni al femminile, e pensavo: beh, sì, in effetti non m’eran mai parse delle Mafai.

Ma pensavo anche che è ingiusto pretendere coraggio intellettuale o anche solo personalità da queste povere inette che si trovano a cercare di non far affondare la barca in un tempo in cui l’ultima scema che instagramma un video dicendo che essere donne significa aver paura se torni a casa da sola la sera (ma assolutamente non averne se nello spogliatoio della palestra c’è una donna coi baffi), l’ultima improvvisata risulta più autorevole dei loro poveri giornali, è ingiusto pretendere dalle tizie di questo secolo carattere, fisarmonica, senso del brivido, o una qualsivoglia qualità che avevano le Mafai nate tra una guerra mondiale e l’altra, quelle che non pensavano di dover dire che le donne sono meno pagate e lavorano di più, non pensavano di dover mentire per conquistare i diritti.

«Non posso negare di aver trovato difficoltà a lavorare con delle donne e a dirigerle. Forse adesso dirò delle mostruosità, ma generalmente il senso del dovere professionale non è molto alto fra le donne. Di questo io mi sono accorta nel ’64, quando non era ancora arrivato il femminismo a dire che la professionalità a tutti i costi è sbagliata perché è alienante, competitiva e via dicendo. Al contrario io avevo sempre concepito la professione come fondamentale, e non capivo che si potesse rinunciare a un servizio perché il pupo aveva il raffreddore. Invece a Noi Donne mi sono trovata in un universo in cui esisteva il raffreddore, il parrucchiere, il compagno… tutte cose che non avevano per me alcun motivo serio di esistere, di fronte ai problemi di lavoro».

Chissà cos’avrebbe pensato d’un secolo che spaccia per femminismo il «mi dimetto perché voglio tempo per me» o l’«ho diritto a due giorni di congedo emorragico al mese». Se l’anno prossimo mi ricordo per tempo dell’8 marzo, mi appunto di chiedere non mimose, nuove cose, o una card di Instagram su quanto carico del lavoro di cura pesi sulle spalle di me donna che neanche lavo i bicchieri. Se l’anno prossimo me ne ricordo per tempo, chiedo per tutte voi un po’ di brutto carattere così non vi toccano gli articoletti celebrativi; e per tutte noi d’essere più Mafai, e meno quella versione di Quelo che sono le donne di questo secolo: ma tu lo sai a che ora mi sono svegliata stamattina, la bambina ha vomitato.