Il gesuitaL’eredità di Papa Francesco e il suo magistero all’insegna dell’accoglienza

Bergoglio ha portato al drastico ridimensionamento dell’uso del Rito romano antico, che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum. E non è mai stata finora pubblicata l’edizione latina d’importanti documenti

(La Presse)

Mai come in quest’ultimo periodo, Papa Francesco è tirato da una parte e dall’altra per la veste talare. L’hanno fatto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i suoi, che hanno ripetuto fino alla nausea le giuste parole pontificie contro gli scafisti, evitando però di leggerle nell’ambito di un martellante magistero dell’accoglienza e di riprovazione di ogni politica dei porti chiusi, dei rimpatri senza sicurezza, dei sovranismi populisti. L’hanno fatto e continuano a farlo i vari avvocati del popolo, meglio sarebbe dire di Putin, che imperversano in talk show televisivi, non mancando di citare litanicamente il Papa, laddove di questi sono inequivocabili i gesti e i pronunciamenti a favore del «nobile e martire» popolo ucraino e della loro resistenza.

Est modus in rebus, verrebbe da esclamare con Orazio. E mai frase fu più calzante per lo stesso Jorge Mario Bergoglio, nel giorno in cui ricorrono dieci anni dall’elezione a vescovo di Roma. Di contro a un occasionale fiorire di dichiarazioni, pubblicazioni, eventi, largamente fondati ma non sempre vergini di servo encomio, si avverte forte l’esigenza di valutazioni meno unilaterali di un pontificato complesso e, come altri, dai contorni chiaroscurali. Esemplificativo al riguardo, tanto da potersi definire caso da manuale, il drastico ridimensionamento dell’uso del Rito romano antico, che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum.

Sull’opportunità o meno del documento ratzingeriano, che soprattutto all’epoca della pubblicazione sollevò non poche polemiche e divergenti valutazioni, sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. A motivare soprattutto le reazioni più oculate furono all’epoca la preoccupazione che si finisse per svalutare non solo la riforma liturgica postconciliare ma la portata vincolante stessa del Vaticano II, già messe in discussione in aree tradizionaliste, e venire meno a «una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo».

Parole, quest’ultime, d’uno dei più ragguardevoli critici del Summorum Pontificum quale il cardinale Carlo Maria Martini, che s’era però anche detto ammirato dell’«immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove». E che, al contempo, nel medesimo articolo per Il Sole 24 Ore aveva scritto nero su bianco di ricavare come «valido contributo del motu proprio la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero». Chiaro riferimento allo scisma lefebvriano, nell’ottica di una cui ricomposizione la lettera apostolica era stata pensata oltre a quella prioritaria di una pacificazione all’interno stesso della Chiesa cattolica in risposta alle «giuste aspirazioni» dei non pochi fedeli legati o attratti dall’uso antico.

S’è così assistito negli ultimi anni a un superamento di antiche tensioni, che ha anche fatto da parziale argine, nel variegato mondo del conservatorismo, al serpeggiare di nuove. Ma le une riesplose, le altre detonate, il 16 luglio 2021, quando Francesco, essendo fra l’altro ancora vivo Benedetto XVI, è voluto intervenire con un suo motu proprio, intitolato Traditionis custodes, sull’«uso della liturgia romana anteriore alla Riforma del 1970». E l’ha fatto cassando quasi tutte le disposizioni contenute nel documento del predecessore, iniziando col demandare al vescovo diocesano», cui «spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi», l’autorizzazione dell’«uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica».

Consapevoli dei risultati raggiunti nei precedenti quattordici anni in termini di accennata pacificazione, molti presuli hanno subito provveduto a mantenere lo status quo autorizzando il detto uso. Tra questi anche il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, l’ha fatto con il decreto del 25 luglio 2021, non avendo d’altra parte avuto mai difficoltà a celebrare talora lui stesso la Messa o i Vespri secondo il rito antico, tanto da suscitare le scomposte reazioni del liturgista bergogliano Andrea Grillo. Ma il porporato s’è invece mosso, al pari di tanti, nell’ottica di quel dialogo e abbattimento di muri così tanto invocato a livello generale da Papa Francesco. Che, però, dà prova d’innalzarli quando è in ballo il vetus ordo.

E così un ulteriore giro di vite si è avuto il 21 febbraio scorso col rescritto pontificio che – ottenuto dal cardinale Arture Roche, prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, nell’udienza pontificia del giorno precedente – implementa la Traditionis custodes, riservando «in modo speciale alla Sede apostolica» le dispense relative all’«uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962» e alla «concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del motu proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962». Non senza aggiungere che «qualora un vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi». Insomma, un vero e proprio atto di centralismo romano a discapito delle prerogative e competenze dei singoli vescovi nelle proprie diocesi nonché a ennesima riprova di una collegialità e una sinodalità troppo spesso ridotte a meri slogan.

Il discorso però andrebbe allargato all’uso del latino in sé, che oltre Tevere appare sempre più deprezzato e mal digerito. Lo hanno ben compreso i tanti giornali che, nel dare notizia del rescritto, ne hanno parlato in termini di guerra alle messe in latino o di nuovo no pontificio alle stesse. D’altra parte, in quale considerazione sia oggi là tenuta la lingua ufficiale della Chiesa lo si evince dal fatto che non è mai stata finora pubblicata l’edizione latina d’importanti documenti quali, ad esempio, l’enciclica “Fratelli tutti” e la costituzione apostolica Praedicate Evangelium.

Indicativo al riguardo è inoltre l’aneddoto raccontato dallo stesso Bergoglio ai 53 gesuiti slovacchi, incontrati a Bratislava il 12 settembre 2021: «Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene. Lui, che ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono tanti ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”. Così li ha fatti “atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra». Eppure, sono ben altre le indicazioni che vengono dai documenti conciliari come, ad esempio, la Sacrosanctum Concilium e l’Optatam totius che sottolinea come «gli alunni del seminario» debbano «acquistare quella conoscenza della lingua latina che è necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze e i documenti della Chiesa».

Sarebbero dunque da rileggere e riconsiderare le parole che il cardinale Martini scrisse nel citato articolo “Amo il latino, però…”, in cui, pur muovendo critiche, come detto, alle disposizioni del Summorum Pontificum, osservava avvedutamente: «Il latino divenne poi, nei giorni dell’adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficoltà a predicare in questa lingua. A Milano, nella Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello ardente e un po’ ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum sapientia per la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano».

Insomma, ben venga l’ampia opera di riforma avviata da Papa Francesco per rendere la Chiesa un luogo d’accoglienza comune. Ma ciò non sarà possibile senza un vero dialogo con tutte e tutti, al cui avanzamento certo non giovano decisioni verticistiche e spesso di pancia. Auguri, dunque, Santità, e, per dirla con Manzoni, adelante, si puedes, adelante con juicio.

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