L’italiano è la lingua meno parlata in Italia. Non vi sembri un’iperbole: l’italiano non lo parla nessuno. Se sono romani parlano romano, se sono milanesi parlano quel che loro credono sia inglese, se sono laureati accentano i monosillabi sbagliati perché non stavano attenti durante le scuole dell’obbligo, se stavano attenti sono state loro insegnate assurdità quali «sé stesso non si accenta».
Giacché l’italiano non lo parla nessuno, non lo parlano di certo le maestre elementari o le prof di italiano delle medie, e quindi quelli che un tempo avrebbero zappato la terra e ora fanno i social media manager sono cresciuti senza nessuno che glielo insegnasse.
Guardavo le storie Instagram d’un conduttore televisivo non particolarmente ignorante. C’erano degli agghiaccianti «sù». Ho detto a una persona che lavorava con lui che ogni segno grafico del genere rischiava d’indurmi un ictus. Mi ha risposto: eh ma poverina, le fa la sua assistente. Assistente che ha finito le scuole elementari, le medie, il liceo, plausibilmente anche l’università, e con voti alti, senza mai imparare che le preposizioni non si accentano. Cosa potrà mai andar storto.
Tempo fa ho visto, in pagine culturali fatte da gente non completamente analfabeta, una sleppa di «sé stesso» senza accento. Ho chiesto a una persona che ci lavorava se fossero impazziti, e mi ha dato la risposta che mi ha più turbato in questo secolo. Mi ha detto che avevano fatto una riunione e avevano deciso di non accentare «sé stesso» perché i lettori di certo non sanno che è meglio accentarlo, di certo non si sono mai messi a ragionare sull’insensatezza della loro maestra elementare, di certo ignorano che per questo disgraziato paese è passato Luca Serianni, e quindi a ogni «sé stesso» avrebbero scritto alla redazione per dire come fate a essere così ignoranti, sé stesso si scrive senza accento, la mia maestra elementare si rivolta nella tomba, e loro non avevano tempo di rispondere, di rieducarli, di aprire questo fronte di guerra.
Per qualche ora, dopo questa conversazione, mi sono aggirata per le strade convinta che fosse tutto finito, che tra un po’ le pagine culturali avrebbero cominciato a scrivere «pò» perché i lettori lo vogliono e chi siamo noi per opporci, il livellamento verso il basso non era frenabile, eravamo rovinati.
Poi mi sono ricordata che ci sono giornali ai quali io da anni mando articoli che rigorosamente non contengano neanche un «sé stesso», perché so che mi toglierebbero l’accento, e anch’io evidentemente mi sono arresa: potrei discutere ogni volta, spiegare, raccomandare, ma mi sembra più semplice e svelto formulare le frasi in modo che «sé stesso» non serva.
L’italiano non lo parla più nessuno, e ovviamente non parliamo neanche l’inglese: non siamo riusciti a imparare la lingua che ci parlavano in fase di lallazione, figuriamoci se ne impariamo decentemente una straniera, oltretutto piena di vocaboli, noialtri così stolidi che qualunque nuovo vocabolo ci fa paura e ci percepiamo intelligenti perché rifiutiamo di adoperare «apericena».
Ci siamo in compenso inventati una lingua che non c’è, fatta di vocaboli inglesi per i quali (fatto raro) c’è un perfetto corrispondente italiano (avrete incrociato anche voi quelli che dicono «slur» convinti che significhi qualcosa di più sofisticato di «insulto»), o che nessun parlante anglofono nativo usa («blast»), o che comunque usano una frazione di quanto li usiamo noi («cringe»).
È una lunga tradizione, diranno i miei piccoli lettori ancora traumatizzati da quella volta che provarono a spiegare a un americano che dovevano noleggiare uno smoking, e quello li guardava chiedendosi di cosa diamine stessero parlando, prima di capire che per il tuxedo gli italiani avevano inventato una parola anglofona che gli anglofoni non capiscono.
Ma, un po’ come il poké (una ciotola di riso hawaiana – almeno così ho letto, ma mica ho verificato alle Hawaii, e sono ragionevolmente certa non abbia verificato nessuno di quelli che ne hanno scritto – che non avevamo mai sentito nominare fino a qualche anno fa), la tradizione è degenerata.
Così come ora a Milano ci sono più negozi dove mangiare il poké che dove farsi la manicure, allo stesso modo l’angloitaliano è fuori controllo. Milanesi (d’importazione, neanche lo specifico: a Milano i nati a Milano sono più rari dei ristoratori cortesi) che smaniano per sentirsi cosmopoliti ti spiegano con un certo sussiego che si dice make-up, non trucco. E tu dici: ma perché. E loro alzano gli occhi al cielo e ti dicono cos’è, sei così antiquata da dire «rimmel»?
E tu pensi che non ti sei mai posta il problema se si dica rimmel o mascara, ti pare si capiscano entrambi ma «rimmel» è più corto e «mascara» non ha uno straccio di canzone di De Gregori che ti ci leghi. Ah certo, concludono sbeffeggianti: ti metterai la terra. La terra, lo dico per i maschi etero (quei quattro rimasti), era una roba orrenda che noi ragazze degli anni Ottanta ci mettevamo in faccia per avere il colorito di Carlo Conti.
Quindi se non parli un inglese posticcio, fatto di non sapere davvero l’inglese ma di infilare delle parole a caso nella conversazione, se non dici «ho una call», se non sei il Celentano di Prisencolinensinainciusol, allora vuol dire che sei indietro quarant’anni e ti vesti con le spalline imbottite. (Sulla mia tomba ci sarà scritto «non disse mai “sono in call”»).
Ti viene voglia di sciorinare loro un monologo shakespeariano a casaccio, o anche solo un dialogo non doppiato di Fonzie, e stare a guardarli mentre non capiscono la lingua che pretendono di parlare, poi non lo fai perché bisogna avere un po’ di rispetto dei complessi altrui, e il complesso degli italiani è non sentirsi di provincia buttando lì parole con cui convincersi di sapere l’inglese.
Evitando così – non serve una squadra di specialisti viennesi per capire che ogni tic nevrotico serve a scansare un abisso doloroso – di rendersi conto di quanto non sanno l’italiano. Non sanno l’italiano al punto che se citassi Gadda o Arbasino ti chiederebbero di parlare più semplice. Non sanno l’italiano al punto da annunciare leggi che puniscano l’uso di parole straniere mentre si esprimono con parole straniere oltretutto imprecise.
Tuttavia, considerato che l’italiano non lo parla più nessuno, per distrazione o per dolo, per provincialismo o per sciatteria, ecco, io avrei una modesta interpretazione della proposta, e mentre sto per formularla mi viene in mente una polemica di non molti anni fa.
Una conduttrice di tg declinava al femminile «fine settimana», argomentando che sia «fine» sia «settimana» fossero femminili: diranno pure «weekend» per provincialismo; ma, soprattutto, lo dicono perché l’assenza di generi rende l’inglese più utilizzabile dagli analfabeti che siamo diventati.
La mia modesta interpretazione, dunque, è: non sarà che con le multe per l’utilizzo delle terminologie forestiere ripianiamo il debito pubblico in un fine settimana?