Bocconcini del giornoFenomenologia dell’intellettuale e della sua maldestra percezione social

Le polemiche su Rovelli e le riflessioni di Lagioia dovrebbero ricordarci che i grandi pensatori sono quelli che se ne fottono di cosa il pubblico di riferimento pensa vada fatto e non fatto, detto e non detto

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Mi è arrivato un libro d’un blu bellissimo, prima ancora di decidere di leggerlo o a che divano abbinarlo già mi ero distratta. È il nuovo libro di Peter Cameron, e s’intitola con una domanda: “Che cosa fa la gente tutto il giorno?”.

Mi sono distratta pensando che dal catalogo Adelphi recente si potrebbe trarre un moderno questionario di Proust, oltretutto utile in un paese così terrorizzato dalle idee che preferisce riempire i propri giornali d’interviste, piuttosto che azzardare un punto di vista, ma non sa cosa chiedere per non finire nei guai.

Che cosa fa la gente tutto il giorno? Di chi sono le case vuote? Quando abbiamo smesso di capire il mondo? (Il titolo di Labatut non aveva il punto interrogativo, ma sto salvando i giornali, vorrete pur concedermi una licenza poetica).

Aggiungerei, come suggerimento di titolo Adelphi (magari potrebbe scriverlo Rovelli) ma soprattutto di domanda utile al presente: che cos’è un intellettuale? Quali sono le sue mansioni, il suo specifico filmico, per usare una definizione che ci venne fatta diventare lessico famigliare tramite quel personaggio secondo cui l’intellettuale era «più avanti, è più su, è più giù, egli è irraggiungibile, egli è più oltre»?

Una cosa che la gente fa tutto il giorno, nel pasciuto occidente del 2023, è polemizzare. Spesso di sponda. A chiunque stia sui social accade di vedere polemiche di cui bisogna impegnarsi per ricostruire l’origine, giacché il tweet che ti passa davanti è il terzo o quarto livello della polemica, quello in cui Tizio dissente dalla risposta di Caio all’uscita di Sempronio.

L’altroieri mi è passato davanti un tweet di Anna Momigliano che faceva così: «“Un intellettuale privato della libertà di spararle grosse non è più un intellettuale”, scrive Lagioia. Sul succo della questione, non si può dargli torto. Mi chiedo però come siamo arrivati a considerare “spararla grossa” un lavoro da intellettuale». Poi vi dettaglio in quanti modi m’è preso un colpo leggendo il tweet e le risposte, ma prima vorrei ringraziare la Momigliano, senza la quale non avrei mai letto l’articolo di Nicola Lagioia sulla Stampa.

Non l’avrei letto perché la principale risposta alla domanda su quando abbiamo smesso di capire il mondo è: quando abbiamo deciso di nutrirci di bocconcini, come i cani (che d’altra parte sono la cosa più vicina a una religione che questo secolo conosca, e infatti il capo della chiesa cattolica l’ha capito e si è messo in competizione, e ora là fuori è tutt’un agitarsi di gente che si chiede come osi il Papa mancare di rispetto ai pelosoni).

Ho non so più neanche quanti abbonamenti a giornali che ormai non leggo, ho centinaia di finestre di browser aperte su testi interessantissimi dei quali giuro a me stessa che presto supererò la quinta riga, ma c’è sempre una notifica, una distrazione, un frammento che m’impedisce la fruizione intera persino di cento righe di Lagioia su Rovelli, figuriamoci di uno dei saggi brevi da migliaia di righe che languono aperti sul mio schermo.

Sono, purtroppo, diventata una donna di questo secolo, il che significa che il mio livello di decenza non sta, dopo aver visto cinquanta tweet polemici sull’intervista di Elizabeth Holmes al New York Times, nel decidermi a leggere quelle cinquecento righe d’intervista e farmi un’idea mia, macché; per essere una persona ragionevole e informata, basterà io mi limiti a non intervenire con troppa perentorietà nella polemica su un’intervista non letta. Nessuno si aspetta io la legga invece di consumarne i bocconcini che i social hanno fotografato per me, suvvia.

Però il tweet di Anna Momigliano e i relativi commenti, non di Vongola75 ma di gente che leggo abitualmente, mi sembravano così lunari che sono andata a recuperare l’articolo (potrei fingere che fosse il primo passo di una nuova vita in cui torneremo – anzi tornerò io, pioniera passatista – a leggere le cose su cui ci urge avere un’opinione, ma sappiamo tutti che è solo un caso, e tornerò subito ai bocconcini).

«Non sta bene che un intellettuale risulti divisivo e crei scompiglio in un contesto ufficiale. Niente polemiche. E Pasolini? E Malaparte? E Marinetti? E Morante?», dice Lagioia, che sa che siamo culturalmente così complessati che un comportamento ci pare accettabile solo se l’ha tenuto un venerato maestro defunto.

Leggo e aggiungo mentalmente che, ogni volta che sospiriamo sugli intellettuali di una volta, è perché ce ne restano le opere, mica i corrispondenti degli interventi al primo maggio o dei tweet in polemica con Vongola75. Leggiamo Il secondo sesso, mica l’appello in difesa dei pedofili che firmò la de Beauvoir.

Ma la parte interessante è quella che segue. Copio di nuovo: «Che intellettuali e scrittori in questo Paese debbano avere un ruolo decorativo, e soprattutto che debbano dire solo cose giuste». Toglierei «in questo paese» (Lagioia lo specifica perché il suo ragionamento contrappone il caso di Rovelli a quello di Houellebecq), perché mi pare che il nocciolo del dramma sia qui, e sia un dramma mondiale.

Non so più quanto tempo è che non incrocio nel discorso pubblico un intellettuale, inteso come: uno che non lisci il pelo al suo pubblico, che non dica esattamente ciò che ci si aspetta da lui, che sia in grado di sorprendermi.

Vale se il tuo pubblico è il ceto medio riflessivo, e allora somiglierai a quella pagina del Desiderio di essere come tutti che ho citato un milione di volte, e dirai cose di stucchevole buonsenso sul fatto che è molto brutto far affogare i profughi, è molto brutto pagare meno le donne, è molto brutto che i giovani soffrano la società competitiva.

Vale se il tuo pubblico sono i Mazzalupi (la famiglia di Ennio Fantastichini in “Ferie d’agosto”), e allora dirai che non si può più dire niente, che non abbiamo i soldi per gli italiani ma li abbiamo per la guerra, che è ora di finirla d’ingrassare i conduttori Rai mettendo le mani nelle nostre tasche.

Come siamo arrivati a considerare prendere i like un lavoro da intellettuale? Come siamo arrivati a considerare compiacere l’uditorio un lavoro da intellettuale? Come siamo arrivati a considerare un intellettuale chi dice cose che ci facciano sempre e solo annuire come le nostre prozie davanti al maestro Manzi? Come siamo arrivati ad accettare che venga considerato intellettuale chi, pur di restare nella classifica dei libri più venduti, è disposto a qualunque posizionamento popolare, da «i pelosoni sono meglio delle persone» in su?

Nessuno se lo ricorda, perché gli scandali sono anch’essi a bocconcini e li digeriamo in fretta, ma un anno fa la subitanea impresentabilità che un certo club dei giusti ha ora stabilito per Rovelli fu stabilita per Alessandro Barbero. Non ricordo quali furono le altre scelte inaccettabili e di (ricopio una definizione dell’epoca) «suicidio reputazionale» di Barbero, ma ricordo che una fu concedere un’intervista ad Alessandro Di Battista.

Fu il momento in cui Barbero diventò per me interessante. La mia personale risposta a «che cos’è un intellettuale?» è: uno che se ne fotte di cosa il suo pubblico di riferimento pensa vada fatto e non fatto, detto e non detto, pensato e non pensato, e di chi vada o non vada frequentato. Uno che ha la forza di dire: ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me che cos’è la presentabilità.

Un anno dopo nessuno si ricorda della polemica non solo perché le polemiche ormai sono tutte e solo scandale du jour di cui ci si dimentica la settimana dopo: anche – soprattutto – perché la differenza la fa il talento. Alla fine Rhett Butler aveva sbagliato sostantivo: non è chi ha coraggio, che fa anche a meno della reputazione, ma chi ha talento. Chi ha talento e opere e roba che resterà anche quando noialtri dei bocconcini ci saremo distratti dall’indignazione del momento, quello – beato lui – può pure dire che se ne fotte del Ruanda.