Instabilità cronicaI disordini in Kosovo e il fallimento della politica estera continentale della sinistra europea

Lo Stato nato nel 2008 su impulso di D’Alema e Steinmeier fa ancora fatica a essere riconosciuto a livello internazionale. Il suo assetto artificiale e il millenario odio tra gli ortodossi serbi e i musulmani albanesi impediscono ogni ricomposizione e convivenza

AP/Lapresse

I venticinque militari della Kfor feriti in Kosovo – quattordici sono italiani – sono l’ennesima prova del fallimento della politica estera continentale della sinistra europea, in particolare delle strategie astratte di Massimo D’Alema e del socialdemocratico tedesco Frank Walter Steimeier. Fallimento che oggi fa il gioco di Vladimir Putin che fa da sponda al nazionalismo serbo e ha tutto l’interesse al precipitare di una crisi nei Balcani.

Gli incidenti di lunedì spiegano perfettamente come la situazione kosovara sia ingestibile: disertate nei mesi scorsi le urne amministrative, la minoranza serba della regione – centomila abitanti contro 1.750.000 albanesi – ha tentato di impedire a Zvecan, cittadina a piena maggioranza serba, che si instaurasse un sindaco di etnia albanese eletto sulla base dei suffragi del solo e misero tre per cento degli aventi diritto al voto.

In questo contesto paradossale e palesemente non democratico, i militari della Kfor hanno applicato le regole d’ingaggio e si sono frapposti a difesa degli albanesi rinchiusi nel municipio, assediati dai cittadini serbi che hanno lanciato molte molotov – che hanno appunto ferito la forza di interposizione della Nato. Invano, nei giorni scorsi, Italia e Germania hanno tentato di fare pressione sul governo di Pristina perché sospendesse la nomina dei sindaci albanesi eletti con una votazione palesemente assurda in comuni nei quali la maggioranza dei cittadini è di etnia serba.

Ancora una volta, l’ennesima, il governo di etnia albanese del Kosovo non ha ascoltato gli appelli europei alla moderazione e al compromesso e ha scelto la strada della provocazione e dello scontro frontale con la minoranza serba. Scontro tentato ancora pochi mesi fa dallo stesso governo di Pristina quando ha messo provocatoriamente fuori legge le vecchie targhe della Serbia delle automobili della minoranza serba nel nord del Paese, col risultato che i cittadini serbi hanno eretto barricate e che la Serbia, a loro protezione, ha spostato truppe e carri armati alla frontiera.

Crisi congelata grazie alla mediazione dell’Europa e dell’Italia. Prova provata comunque del fatto che è ingestibile l’assetto stesso del neonato Stato del Kosovo voluto fortemente nel 2008 appunto da Massimo D’Alema, allora ministro degli Esteri e dal suo collega tedesco Frank Walter Steinmeier. Stato che peraltro non è riconosciuto da tutte le nazioni dell’Unione europea che hanno problemi di scissione delle loro minoranze etniche – Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia – né da ben novantacinque Stati dell’Onu su centonovantatré. Tra questi Russia, Ucraina, Cina, India e quasi tutti gli Stati dell’Asia e dell’America Latina.

La realtà infatti è che, mentre era più che giustificata la guerra dichiarata nel 1998 dalla Nato alla Serbia di Slobodan Milosevic – che stava conducendo una feroce pulizia etnica contro gli albanesi in Kosovo –, dieci anni dopo, nel 2008, la decisione di proclamare l’indipendenza di una regione mai stata storicamente uno Stato, voluta essenzialmente dalla sinistra europea nel nome di suoi principi astratti, è stata più che discutibile e foriera di instabilità cronica.

La ragione di questo rifiuto al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo è duplice. Innanzitutto, quasi la metà delle nazioni del mondo non accetta il principio di creare uno Stato ex novo, mai esistito storicamente, giudicandolo un pericolosissimo precedente per le proprie regioni autonomiste. Una secessione unilaterale di un nuovo Stato non è mai stata infatti accettata dalla comunità internazionale. Unica eccezione, la secessione del Sud Sudan dal Sudan, che però è stata concordata dopo una guerra e una trattativa con lo Stato, il Sudan appunto, che precedentemente vi esercitava la sovranità, mentre la Serbia rifiuta nettamente ogni trattativa al riguardo.

In secondo luogo perché era evidente a molti che sarebbero incontrollabili le feroci e millenarie tensioni e guerre tra i serbi cristiano ortodossi, che avrebbero mantenuto una consistente minoranza in Kosovo, e gli albanesi musulmani che controllano il governo di Pristina. Con una aggravante: durante la guerra del 1998 gli Stati Uniti decisero improvvidamente di levare dalla loro lista delle organizzazioni terroriste l’organizzazione autonomista kosovara Uçk, e di riconoscerla invece, di colpo, come legittimo esercito di liberazione nazionale.

Il risultato di questa mossa è stato disastroso sul lungo periodo. Infatti dopo la saggia leadership nel governo del Kosovo post 1998 dell’intellettuale moderato Ibrahim Rugova, i dirigenti della pur disciolta Uçk sono riusciti a imporsi nel governo di Pristina applicando una politica del terrore e mafiosa, praticando omicidi politici degli avversari e sempre finanziandosi con traffico di eroina, contrabbando e atrocità varie.

Tra questi ex dirigenti della Uçk dalle mani sporche, di nuovo con una scelta improvvida, gli Stati Uniti hanno per un ventennio privilegiato Hasim Taçi, considerandolo il più politico, tanto che questi è riuscito a diventare primo ministro dopo le elezioni del 2007, imponendo a una riluttante Unione Europea la scelta della indipendenza formale (voluta però fortemente ma di nuovo incautamente dagli allora ministri degli Esteri della Germania e dell’Italia Walter Steinmeier e Massimo D’Alema).

Hasim Taçi infine è riuscito addirittura a diventare presidente della Repubblica tra il 2016 e il 2020. Presidenza bruscamente interrotta su mandato del Tribunale Speciale per la ex Yugoslavia dell’Aja che gli ha finalmente contestato assieme ad altri ex dirigenti della Uçk crimini di guerra e contro l’umanità.

Crimini di guerra e contro l’umanità ai danni della minoranza serba che peraltro la pur disciolta Uçk e altre organizzazioni islamiche hanno perpetrato sin dall’indomani della fine della guerra del 1998. La Nato infatti è stata costretta a inviare subito in Kosovo un forte contingente denominato Kfor forte ancora nel 2007 di sedicimila unità – oggi sono 3411 – per proteggere manu militari chiese e conventi serbo ortodossi attaccati freddamente dagli albanesi musulmani con molte vittime. La Nato ha quindi disposto una cintura di sicurezza armata a favore della minoranza serba che risiede nel nord del Kosovo ma anche in alcune enclave.

Fortissima, ma vana, negli ultimi mesi è stata l’attività diplomatica di Antonio Tajani, di Guido Crosetto e dei loro colleghi europei per tentare una mediazione tra il governo del Kosovo di Albin Kurti e quello della Serbia guidato da Alexandar Vucic. È l’assetto artificiale stesso del neonato Stato e il millenario odio e le cento furiose battaglie tra gli ortodossi serbi e i musulmani albanesi a impedire ogni ricomposizione e convivenza.

Il tutto, a favore di Vladimir Putin, alleato storico della Serbia, che ovviamente soffia per il deflagrare di una guerra nei Balcani, con la Nato in totale difficoltà di gestione.

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