«Ci vediamo dopo la vittoria». In Ucraina è comune salutarsi così, quando non si è sicuri di quando sarà il prossimo incontro. Oppure: «Ricostruiremo dopo la vittoria», si dice di fronte alle macerie. Ma cos’è la vittoria e quali sono le condizioni indispensabili perché la si possa considerare tale? È il centro delle riflessioni di Anne Applebaum e Jeffrey Goldberg in un lungo articolo sulla rivista Atlantic, che per il numero di giugno ha in copertina il ritratto di Volodymyr Zelensky illustrato da Bono.
Per Kyjiv, la vittoria significa innanzitutto tornare a controllare ogni centimetro all’interno dei suoi confini internazionali, Crimea inclusa. Nel 2014, con l’annessione illegale della penisola, Vladimir Putin si è convinto di poter agire impunemente: una tregua che lasciasse sotto il suo controllo pezzi di regioni ucraine rischierebbe di essere un incentivo a riprovarci dopo aver riorganizzato le truppe.
Il territorio occupato, inoltre, è una «scena del crimine», dove i soldati si sono macchiati di crimini di guerra che non possono venire occultati e dove la popolazione è ancora tenuta in ostaggio. Va liberata, perché non c’è vittoria senza riportare al sicuro i civili rimasti coinvolti nel conflitto scatenato da Mosca. Le città sono ancora bersaglio di missili, è impensabile riaprire gli aeroporti. La vera conclusione della guerra sarà quando i rifugiati potranno fare ritorno a casa.
The future of the democratic world will be determined by whether the Ukrainian military can break a stalemate with Russia and drive the country backwards—perhaps even out of Crimea for good. @JeffreyGoldberg and @anneapplebaum report from the front lines: https://t.co/sBjep6imYh pic.twitter.com/0Aws9LvJue
— The Atlantic (@TheAtlantic) May 1, 2023
Perché questo possa avvenire, ragionano i due giornalisti dal fronte, il Paese dovrà essere inserito in uno schema di sicurezza affidabile, «qualcosa che assomiglia alla Nato, se non la Nato stessa». Kyjiv dovrà includere permanentemente la deterrenza nei suoi piani, perché cruciale garanzia della pace. Infine, la giustizia, di cui malgrado i mandati d’arresto dell’Aja si fatica a disegnare l’assetto. I colpevoli, dal campo di battaglia su fino al Cremlino, dovranno pagare le loro colpe.
Nella storia russa, scrivono Applebaum e Goldberg, le vittorie militari hanno rafforzato il potere assoluto. Dalle conquiste di Grigorij Potemkin che ossessionano Putin al mito della «grande guerra patriottica» contro i nazisti. Per converso, sono state le disfatte belliche a porre le basi per un cambio di regime a Mosca o San Pietroburgo. I rovesci subiti contro i tedeschi hanno spianato la strada alla Rivoluzione d’ottobre, quelli in Afghanistan alle riforme della Perestrojka.
L’esempio storico più accurato, anche se meno noto, per l’Atlantic è la battaglia navale di Tsushima, nel 1905. La marina zarista fu clamorosamente battuta da quella nipponica: l’impero russo era, rispetto al Giappone, la potenza più ricca e acclamata. Fu uno shock tale, per Mosca, da non protrarre oltre gli scontri. Ecco, all’Ucraina, secondo l’analisi della rivista, occorre un momento simile.
Serve, in sintesi, un evento abbastanza schiacciante – sul piano militare, ma anche e soprattutto su quello simbolico – da indurre la classe dirigente russa a concludere finalmente che la guerra è stata un errore e a riconosocere il diritto a esistere come nazione indipendente dell’Ucraina. Perché questo passaggio sia possibile, dovrebbe cadere l’attuale tiranno. È uno dei concetti più forti dell’intervento:
«Anche il peggior successore immaginabile – riflettono Applebaum e Goldberg –, persino il generale più sanguinario o il propagandista più rabbioso, sarebbe preferibile a Putin, nell’immediato, perché sarebbe più debole di lui. Diventerebbe velocemente il centro di un intenso scontro di potere. Non avrebbe sogni grandiosi sul suo posto nella storia. Non sarebbe ossessionato da Potemkin. Non sarebbe responsabile di aver cominciato la guerra, e potrebbe rendersi la vita più facile concludendola».
La Crimea è il simbolo più forte. Sembrano fantasie? Lo sembrava pure la difesa di Kyjv nel febbraio 2022, rispondono gli autori. La penisola è strategica: nei nove anni in cui l’ha controllata, la Russia l’ha trasformata. Da resort per le vacanze, è diventata la base navale e area per l’invasione dell’anno scorso. È stata l’«avamposto» per l’attacco al Sud dell’Ucraina, ha detto il suo governatore illegittimo Sergey Aksyonov. Ospita le carceri in cui sono rinchiusi i prigionieri di guerra, da lì viene smerciato il grano rubato a Kyjiv.
«Nelle capitali occidentali, le preoccupazioni sulle conseguenze di una sconfitta russa hanno comportato investire troppo poco tempo pensando alle conseguenze della vittoria ucraina», concludono Applebaum e Goldberg. La Federazione, spesso attraverso la sua longa manus della Wagner, è diventata un fattore di caos a livello globale. Sostiene le dittature in Africa; in Iran, Venezuela e Bielorussia. Inquina le elezioni e il dibattito pubblico con fake news, troll factories e attacchi informatici.
Per questo, come ha detto Zelensky intervistato sempre dall’Atlantic, è in corso una battaglia più ampia, «tra libertà e terrore». Non “solo” sulla definizione di democrazia o civiltà, ma per dare a tutto il mondo un controesempio alla condotta del Cremlino, per «rispettare la sovranità, i diritti umani, l’integrità territoriale; rispettare la gente, non ucciderla, non stuprare le donne, non prendere quello che non è tuo».
La resistenza di Kyjiv ha questo ulteriore valore: «Se una nazione che crede nello stato di diritto riesce a conquistare una vittoria contro una potenza più grande e più autocratica, e se riesce a farlo mentre protegge le sue libertà, allora le altre società aperte e movimenti del globo possono sperare di farcela a loro volta. […] A non tutti, nel mondo, interessa questo conflitto, ma per chiunque stia provando a rovesciare un tiranno, ha un profondo significato».