Si è spenta, per il momento, la polemica tra il governo italiano e il portavoce della Commissione Europea. A Bruxelles nessuno voleva sindacare su un provvedimento, in corso di approvazione, che elimina il controllo concomitante degli atti del Pnrr da parte della Corte dei Conti. È il classico e ipocrita fraintendimento. «Il caso è chiuso», getta acqua sul fuoco il ministro Raffaele Fitto, ma la versione non è quella di Palace Berlaymont né quella del ministro che tiene le redini del Pnrr. A Palazzo Chigi si parla apertamente di «pregiudizio non informato». Da parte di chi?
A Roma c’è sempre il sospetto che a Bruxelles ci sia un nemico nascosto nella tecnostruttura, negli uffici della comunicazione, nei livelli politici apicali vicini ai Socialisti, in qualche commissario (Frans Timmermans, tanto per fare un nome che si troverà combattente nella campagna elettorale delle Europee). Paolo Gentiloni è un’altra storia, più legata all’Italia e alla moral suasion del Quirinale. Il capo dello Stato tutto vuole tranne che l’Italia fallisca gli obiettivi del Piano e garantisce in questo senso una copertura alla premier Giorgia Meloni.
La stessa Ursula von der Leyen non è vista come una nemica. Ha un buon rapporto, anche personale, con Meloni, è stata con lei nelle zone alluvionate, ha promesso forti aiuti. E poi la presidente della Commissione, che fa parte del Partito popolare europeo, vorrebbe succedere a se stessa o rimanere nel giro alto dei vertici comunitari, ben sapendo che da Roma dovrà passare se cambia l’asse di potere con i Conservatori della Meloni e i Popolari.
Poi ci sono i “cattivi”. Quel Timmermans che avrebbe radicalizzato il percorso della svolta ambientale, ha innervosito una parte dell’opinione pubblica dei Paesi europei, quella meno danarosa, sul passaggio green per auto e case. Il tema in generale sarà sicuramente uno dei cavalli di battaglia delle Europee.
I “nemici” a Bruxelles, e in alcune capitali del Continente, sono quelli che faranno di tutto per evitare che si realizzi il ribaltone delle alleanze storiche, che i Socialisti vengano cacciati all’opposizione. Perché, come dice Silvio Berlusconi nell’intervista di ieri al Giornale, «la maggioranza fra popolari, liberali e socialisti, che ha retto le istituzioni europee per molti anni, ha fatto il suo tempo». Per il Cavaliere aveva un senso quando l’Europa era un accordo fra gli Stati, «e rappresentare nelle istituzioni europee tutte le grandi famiglie politiche dell’epoca ne garantiva una certa neutralità». Per Berlusconi invece l’Europa ha acquisito una soggettività politica autonoma e quindi «è diventato sempre più importante che la sua guida assuma una connotazione politica chiara. Tenere insieme forze che hanno visioni ed obbiettivi diversi porta solo alla paralisi o a soluzioni pasticciate».
Peccato che Berlusconi, che ha sempre sperimentato alleanze larghe anche in Italia, dimentica di dire che l’intesa che immagina non intende spingere per una maggiore «soggettività politica», per un salto verso una vera federazione. A ostacolare il principio del voto a maggioranza sono proprio quei Paesi da cui arrivano i veti e hanno la visione più nazionalistica.
Ci sarà semmai, in caso di una nuova maggioranza europea, un repulisti da spoil system in quelle tecnostrutture di cui parlavamo all’inizio e una sostituzione sistematica dei centri di potere e di controllo che potrebbero favorire Roma. Verrebbe soddisfatto in parte quell’istituto e quel sentimento che ha riempito di consensi prima la Lega di Salvini e poi Fratelli d’Italia.
Non è detto che questo accadrà. Forse sono pie illusione che non tengono conto che, comunque, nel 2024 una commissione di centrodestra dovrà sempre fare i conti con due governi che saranno ancora in carica e di segno politico opposto, Germania e Francia. Non due Paesi baltici, con tutto il rispetto per loro. E poi c’è l’incognita spagnola (in troppi danno per morto il Partito Socialista di Pedro Sanchez).
Ora, di fronte al «pregiudizio non informato» di Bruxelles, Meloni tira dritto e oggi fa approdare alla Camera il decreto sulla Pubblica Amministrazione, che ha in pancia la spuntatura di unghie della Corte dei Conti e l’abrogazione del danno erariale solo per dolo (e non per colpa grave). In settimana ci sarà con ogni probabilità il voto di fiducia e avanti come un carro armato, provando a far dimenticare il vero problema. A Bruxelles non sanno cosa voglia fare il governo italiano sul Pnrr, cosa proporrà di annullare per avere la terza e le ulteriori rate dei circa duecento miliardi del Recovery Fund destinati agli italiani. E qui non c’è alcun pregiudizio che tenga. Domani la Spagna comunicherà la sua revisione da novanta miliardi. Francia, Germania, Portogallo e Grecia hanno già presentato la loro. L’Italia ancora non pervenuta. La Commissione vorrebbe ricevere gli emendamenti già a giugno, mentre il governo sposata il termine 31 agosto.
La netta sensazione è che questa maggioranza, che vuole governare anche l’Europa, non sia in grado di fare una scelta. I partiti che governano hanno obiettivi diversi, c’è una pletora di piccoli progetti da annullare nel territorio per la felicità dei comuni. C’è sopratutto la mancanza di un progetto complessivo del Paese, su come incanalare quel quasi cinque per cento di crescita prevista per i prossimi anni. E che senza gli investimenti del Piano possiamo dimenticare.
È un Paese, il nostro, che cresce, addirittura meglio degli altri, a dispetto dei santi e della politica, perché c’è una fibra imprenditoriale robusta e un museo a cielo aperto che produce il boom del turismo. Meloni e i suoi ministri non hanno chiara la direzione di marcia.