L’ereditàL’economia italiana andrà bene fin quando Meloni seguirà l’agenda Draghi

Nonostante il rallentamento generale, il nostro mercato interno è il più dinamico dell’Unione europea. Tuttavia, per consolidare questo trend positivo, sarà necessario rafforzare il contesto istituzionale e affrontare le inefficienze storiche

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Anche gli ultimi dati sul secondo trimestre lo confermano: l’economia italiana sta migliorando nei confronti dei suoi competitor europei. Anche in questa fase di rallentamento, e nonostante una variazione negativa del Prodotto interno lordo rispetto al primo trimestre dell’anno, le previsioni parlano di una possibile chiusura del 2023 con un più 0,8 per cento, come rilevato dall’ultima nota congiunturale di Ref di lunedì 31 luglio. Rallentiamo, è vero, ma meno della Germania, alle prese con i problemi del settore auto, e anche meno delle economie dei paesi emergenti dell’Unione europea, Polonia in testa, che risentono di più del calo delle esportazioni per il rallentamento della domanda mondiale.

Insomma, anche in questo mare procelloso la navicella italiana sembra aver trovato un suo nuovo equilibrio e una sua stabilità di rotta. Qualcosa deve essere cambiato dalla fine della pandemia in poi. E paradossalmente sembrano essersene accorti prima dall’estero che qui da noi.

Qualche settimana fa Ey ha pubblicato il suo ultimo report sullo stato degli Ide, gli investimenti diretti esteri, ossia quanto le imprese straniere investono in un determinato paese. È un indicatore importante perché misura il grado di affidabilità con cui un mercato viene percepito, Ancora di più perché si parla di investimenti da parte di imprese: non allocazioni finanziarie che possono essere anche di breve periodo, ma impieghi di medio lungo termine. È un campo in cui l’economia italiana è rimasta sempre parecchio indietro rispetto ai maggiori partner europei, e infatti abbiamo un numero valore di investimenti esteri che è pari al quattro per cento del totale europeo, a fronte del ventuno per cento della Germania e del quattordici per cento della Francia.

Qualcosa è cambiato e, come rilevato dall’Ey Europe Actractiveness Survey 2023, nel corso dello scorso anno l’Italia è stata la prima destinazione europea per nuovi progetti di investimenti esteri: ne abbiamo ricevuti ben duecentoquarantatré, il diciassette per cento in più dell’anno prima. E questo tasso di crescita non solo ci ha collocato in tal senso al primo posto in Europa, ma è stato anche di segno opposto rispetto a quanto avvenuto in Germania, dove il numero di nuovi progetti è calato dell’uno per cento. In Francia è rimasto in effetti il segno più ma la crescita è stata di appena il tre per cento. E, guardando fuori dall’Ue, il Regno Unito ha visto un calo del sei per cento.

Che cosa c’è dietro questo cambiamento? E perché veniamo percepiti più positivamente? «Ci sono sostanzialmente tre fattori – spiega Marco Daviddi, Strategy & Transactions Markets Leader Europe West e Strategy & Transactions Leader Italy di Ey – la pandemia, la guerra russo-ucraina e la transizione energetica. In ognuno di questi grandi nodi globali l’economia italiana si è ben mossa o si è trovata, per una serie di congiunture, in una posizione di vantaggio. Nel caso della pandemia ciò che ha colpito moltissimo la comunità delle imprese internazionali è stata la rapidità della risposta che ha permesso al Paese di ripartire prima degli altri, passando da Paese numero uno per arretramento di Pil nell’anno dei lockdown a una ripresa abbondantemente sopra la media.

Lo scoppio della guerra in Ucraina, poi, ha creato uno scompiglio imprevedibile nelle rotte di approvvigionamento di merci, in primo luogo energetiche ma non solo. Ne è derivata una nuova centralità logistica del Mediterraneo, dove il vantaggio italiano è geograficamente evidente. E che si va a sommare ai processi di nearshoring, di riposizionamento delle filiere produttive con il ritorno di produzioni in Europa. In terzo luogo, il fronte dell’energia: qui è stata rilevata e apprezzata la velocità con cui il Paese è riuscito a sostituire la dipendenza dal gas russo con nuovi accordi commerciali, e accelerando sulla transizione verso le fonti rinnovabili, ambito che ha attratto un sostanzioso numero di progetti di investimenti esteri».

In buona sostanza il Paese ha approfittato degli effetti per noi positivi di una serie di nuove congiunture. Non è stato, però, solo un caso di sorte benigna, che da sola non sarebbe bastata. C’è evidentemente stata una capacità di manovrare positivamente all’interno di questo nuovo scenario, sia da parte del tessuto economico, dove il processo di internazionalizzazione in corso da parte del nostro sistema di medie e piccole imprese ha saputo fare la sua parte, ma anche da parte del versante istituzionale, che ha saputo riallacciare fili di dialogo commercialmente determinanti con gli altri paesi produttori di gas. Una capacità che ha di certo beneficiato della capacità di manovra internazionale del governo guidato da Mario Draghi, che ha di fatto tenuto il timone per tutto il 2022.

La novità è che gli effetti positivi di questo nuovo corso non sembrano essersi interrotti con il nuovo governo a trazione Fratelli d’Italia. D’altra parte, la premier Giorgia Meloni ha da subito cercato di tacitare ogni dubbio sulla sua politica estera rifacendosi in modo esplicito al lavoro svolto da Draghi. E all’estero la cosa deve essere sembrata convincente, visto che la percezione dell’Italia è tuttora in linea con quella dello scorso anno.

«Sebbene il rallentamento della crescita in Europa, il livello di debito pubblico e l’andamento crescente dei tassi di interesse stiano influenzando le strategie di investimento in Italia, i player di mercato mantengono un moderato ottimismo: il cinquantaquattro per cento delle imprese intervistate ha intenzione di investire in Italia nei prossimi dodici mesi e il cinquantasette per cento ritiene che l’Italia migliorerà la propria attrattività nei prossimi tre anni. Con Draghi i valori erano sostanzialmente simili: il sessanta per cento. I settori digital economy, energia e beni di consumo, incluso il comparto agroalimentare, sono quelli considerati dalle imprese estere come più promettenti nel trainare la crescita italiana nei prossimi anni. Business services, marketing e vendite e processi di produzione risultano essere le funzioni aziendali su cui gli investitori esteri puntano maggiormente, anche per effetto dei trend di reshoring e nearshoring. È vero che il nostro costo del lavoro è alto rispetto ai mercati dell’est Europa, ma il mix tra costi e qualità del prodotto è tutto a nostro favore, e infatti la Francia ha rilocalizzato in Italia diverse produzioni. Poi, certo, ci sono ancora delle difficoltà. La funzione di ricerca e sviluppo, tra quelle a maggior intensità di know-how, risulta ancora meno sviluppata in Italia rispetto ad altre economie europee. Ma questo vuole anche dire che in quest’ambito lo spazio di miglioramento è ampio e si potrà far leva sugli investimenti pubblici del Pnrr», spiega Daviddi.

Questo è il punto: c’è un trend positivo in atto, ma per durare e consolidarsi andrà rafforzato. I maggiori investimenti esteri non sono arrivati attratti dalle promesse di riforme che ancora non ci sono. E se è vero, come illustra il sondaggio contenuto nel report di Ey, che le aspettative positive sull’economia italiana arrivano in maggior misura da manager di imprese che in Italia già operano rispetto a quelli che progettano di sbarcare da noi ma non sono ancora arrivati, non bisogna dormire sugli allori. Nessun problema sul versante imprese: qui l’internazionalizzazione dei campioni del Made in Italy continua senza interruzione.

«Abbiamo dati interessanti in materia di M&A, delle acquisizioni – continua Daviddi – Cresce lo shopping italiano all’estero. Il numero delle operazioni è rimasto lo stesso del periodo precedente, ma il valore è raddoppiato ed è cresciuto il valore medio delle operazioni. Segno che c’è uno zoccolo duro di imprese medio grandi che si stanno ulteriormente rafforzando».

Il problema è tutto sul versane delle istituzioni. Giorgia Meloni ha dato prova di sapersi muovere bene all’estero. Anche nei rapporti con l’Ue, dove l’attuale fase di “conflittualità dialettica” è stata preparata con un ampio shopping di collaboratori e consulenti selezionati tra chi gli uffici di Bruxelles li frequenta da anni e non con nomine improvvisate. Ma tutt’altra cosa sarà affrontare i nodi storici delle inefficienze italiane, andando a toccare caste e rendite di posizioni sui cui da anni si giocano buone fette delle campagne elettorali.

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