A inizio luglio il caldo a Torino comincia a farsi quasi opprimente, ma nella sala d’attesa di Caselle l’aria condizionata ci salva dall’ultima arsura del giorno. Sono le 19:30 e l’aereo è quasi pronto al decollo: nel giro di un paio d’ore saremo a Cracovia, prima tappa del nostro viaggio verso Leopoli, la più grande città dell’Ucraina orientale, la più vicina al confine polacco.
Viaggiamo insieme a Nadiya, che si è offerta di fare da interprete durante questi giorni. Per lei, nata e cresciuta in un villaggio a pochi chilometri da Leopoli, rientrare a casa per la prima volta dopo lo scoppio della guerra significa molto. Per noi, contare sul suo aiuto è fondamentale. «Vedrete, sarà difficile parlare inglese», ci aveva detto prima della partenza: così è stato. Poco dopo l’inizio del viaggio da Cracovia a Leopoli, il controllore comincia a percorrere lentamente il corridoio dell’autobus, chiedendo a ciascun passeggero il titolo di viaggio. Siamo seduti in fondo, così riusciamo ad assistere a tutta la scena. In molti vogliono fare il cambio valuta: dev’essere una prassi consolidata, vista la scaltrezza con cui il controllore afferra dal suo borsello a tracolla le hryvnje (lett. grivnie, ndr) ucraine riponendo in una tasca gli euro, in un’altra gli złoty polacchi.
Intorno alle due del pomeriggio siamo nei pressi del villaggio di Medyka, a pochi metri dal confine. Qui, dopo oltre un’ora e mezza fermi, avanziamo a passo d’uomo fino a un cancello. Un militare polacco sale a bordo per il controllo passaporti, osservando i passeggeri uno a uno. Nadiya ci spiega che da quando c’è la guerra, per i molti minorenni presenti sul nostro autobus è sufficiente essere in possesso del certificato di nascita. Appurare che si tratti di un certificato originale nel buio non dev’essere facile, ma l’addetto non sembra preoccuparsene. Dopo circa un’ora, dall’altra parte del confine, una militare ripete i controlli nello stesso modo, solo prestando più attenzione ai certificati di nascita.
Sull’autobus tutti i passeggeri appaiono tranquilli, tranne noi. Ansiosi di arrivare a destinazione, non siamo abituati a una prassi di attese, passaporti ritirati e riconsegnati, sguardi indagatori e visti d’ingresso. Al mattino, però, arrivati alla stazione centrale di Leopoli, ci rendiamo conto che è questo il prezzo da pagare per superare il confine tra Ucraina e Polonia – tra un Paese che ha subito un’invasione e l’estremo baluardo della pace europea.
Com’è vivere al di là di questo confine? Durante la nostra permanenza a Leopoli abbiamo incontrato molte persone disposte a raccontarsi. Uno spaccato parziale ma sufficiente per avere un’idea di come la vita possa trasformarsi in un attimo.
«La mia vita e quella di tutti gli ucraini è cambiata radicalmente dopo lo scoppio della guerra. Abbiamo cominciato a darle più valore, ad apprezzare ogni momento perché comprendiamo che domani potremmo non esserci più», dice qualcuno. Siamo ai tavolini di un pub nella piazza del municipio: qui la birra che va per la maggiore è la Pravda, che significa «verità». Un mappamondo all’interno del locale indica tutti i Paesi in cui viene esportata: non c’è la Russia, perché «tut nema pravda» (qui non c’è verità, ndr). Marta ha ventidue anni, lavora come modella e parla con disinvoltura. Raccontarci i suoi timori non sembra darle fastidio e sceglie con cura parole che appaiono risolute: «Da un momento all’altro potremmo non avere più i nostri cari accanto a noi». Anche per chi vive a Leopoli, a oltre mille chilometri dal fronte, informarsi sull’andamento del conflitto è entrato a far parte della quotidianità: «È molto difficile smettere di seguire le notizie – dice Marta –, è essenziale conoscere ciò che sta accadendo».
Tra le voci che riusciamo a raccogliere, la testimonianza di Nadia (zia della nostra interprete Nadiya) giunge dritta al cuore della questione. Ci invita a casa sua appena arrivati a Leopoli: per pranzo ha preparato il boršč, la tipica zuppa ucraina a base di barbabietola. Per lei rappresenta un gesto di benvenuto e di apertura di una piccola finestra sulla propria vita.
«Lavorando in redazione ho percepito in prima persona come la guerra abbia influenzato l’attività di noi giornalisti. Siamo diventati molto reattivi, pronti a coprire gli eventi ventiquattr’ore su ventiquattro, mettendo in campo ogni sforzo necessario per raccontare la verità». Nadia è una giornalista radiofonica del servizio pubblico ucraino: vivere e raccontare la guerra distanti dagli oblast’ più colpiti, se da un lato consente di svolgere una vita un po’ più tranquilla, dall’altro permette di entrare in contatto con la macchina dell’accoglienza. «Leopoli viene considerata una città relativamente sicura: molte persone vengono qui dal fronte per rifugiarsi e altre arrivano da tutto il paese per curarsi. Approdo ma anche tappa intermedia, in attesa di tentare la via dell’estero». Nadia, dal canto suo, prova a dare una mano: «Cerco di essere il più produttiva possibile nel lavoro per aiutare chi ha bisogno: in radio, questo significa comunicare con precisione quello che accade».
Durante l’attesa alla frontiera tra Ucraina e Polonia capita di imbattersi in nuove storie. «Ho incontrato Valentina in una biblioteca di Siracusa, quindici anni fa. Abbiamo passato cinque anni in Sicilia e poi abbiamo fatto un viaggio in bici da lì a Sofiivka, Kachovka, nell’oblast’ di Kherson: sessantasette giorni in campeggio», dice Liam, uscito dall’Ucraina nel febbraio del 2022 per recarsi in America in visita ai parenti, appena qualche giorno prima dell’inizio della guerra. «C’era il dubbio se arrivasse o no questa invasione, ma non immaginavamo qualcosa di così orribile. Adesso sono cinquecento giorni che io e Valentina non ci vediamo».
I due si sentono ogni giorno al telefono: è Valentina a chiamare, quando ne ha la possibilità. Liam ha deciso di stabilirsi nel villaggio di Lorocta. «Sembrava stupido aspettare in America, non volevo essere così staccato dalla situazione. Almeno sono nel suo stesso paese e mi sento più vicino a lei, così tornerà il più presto possibile». Kachovka, la regione in cui abitavano insieme, è occupata dall’inizio della guerra. Liam racconta che i soldati controllano tutto, compreso il villaggio in cui vivono e la loro casa. Valentina è voluta restare soprattutto per sua mamma, che è molto anziana e non può viaggiare né lasciare la sua casa. «In questo momento non abbiamo la possibilità di stare nello stesso posto: lei non può uscire, è intrappolata, e io non posso entrare in quella zona. Non abbiamo scelta». Liam sta andando a Praga per un esame oculistico, poi tornerà in Carpazia ad aspettare Valentina. «Non possiamo che attendere, con speranza: non c’è altro da fare», dice.
«Da quanto tempo siamo qui?», chiediamo. «Un’ora e mezza», ci risponde Alex (nome di fantasia, ndr). Per superare i controlli, di ore ce ne vogliono più di quattro. Alex è un volontario italiano originario del Monferrato che oggi vive a Regensburg, in Germania. «Per volontariato viaggio parecchio», racconta. Alex è di ritorno da Kyjiv e il suo viaggio è iniziato ben prima del nostro. Un treno lo ha portato dalla capitale a Leopoli ed è arrivato venti minuti dopo l’inizio del coprifuoco, che scatta a mezzanotte: «Panico totale, cosa facciamo? Ho chiesto un po’ in giro, ma mi hanno detto di non preoccuparmi: ci sono i taxi autorizzati a girare, basta installare l’app. Arrivare per la prima volta in una città durante il coprifuoco non è piacevole, ma qui non lo prendono seriamente. A Kyjiv invece sì», racconta. Una notte in albergo e si riparte, destinazione Cracovia. «Ho scoperto che c’è l’autobus diretto da Regensburg alla capitale che ci mette trenta ore: la prossima volta prendo quello», scherza.
«Kyjiv è bellissima, dovete andarci, è da vedere»: inizia così il racconto di Alex, che ci mostra foto e video. «Qui una volta c’era la statua dell’amicizia tra ucraini e russi. Questo è il Ponte di vetro sul Dnipro che l’esercito di Mosta ha cercato di buttare giù, mentre qui hanno messo in mostra tutti i mezzi russi distrutti recuperati da Bucha e Irpin’. E da qua vedi tutta Kyjiv. Questa è la piazza dell’Euromaidan piena di bandiere dell’Europa: su ognuna c’è un nome. E poi il memoriale di Bucha, pazzesco: se guidi per le vie vedi le case distrutte, quelle che i volontari stanno ricostruendo», dice. Alex è orgoglioso di raccontarci ciò che ha visto, ma ha la sensazione di esservi rimasto troppo poco: «La prossima volta mi prendo un mese», dice sorridendo. È venuto da solo, ma tramite Twitter è riuscito a incontrare tante persone: «Kyjiv è molto ospitale, è facile imbattersi in storie interessanti». E la prossima volta vorrebbe avvicinarsi di più al fronte. «In Germania faccio parte di un gruppo di volontari: raccogliamo fondi e poi compriamo generatori, radio, garze e altro materiale da mandare al fronte. Chi lo riceve ci invia una bandiera in segno di riconoscenza». Mentre Alex parla assistiamo all’incolonnamento sempre più lungo delle auto alla frontiera: «Esiste una logica per passare eh, ma non l’ho ancora capita», commenta.
Aspettiamo più di due ore per ripartire. A differenza del viaggio di andata, i controlli si sono fatti più stringenti. L’autista spiega la procedura in maniera approfondita, ma esclusivamente in ucraino. Noi, intanto, siamo rimasti senza interprete perché Nadiya ne ha approfittato per rimanere qualche giorno in più con i suoi parenti a Leopoli. È quindi fondamentale basarci sulle azioni degli altri passeggeri, che recuperano i loro bagagli e scendono dall’autobus. Dalla parte ucraina basta un controllo dei passaporti, mentre scavallata la frontiera gli addetti polacchi passano zaini e valigie all’interno di uno scanner. Per Alex, che indossa un cappello verde militare con la bandiera ucraina, i controlli sono ancor più approfonditi.
Marta, Nadia, Liam e Alex sono solo alcune delle storie che abbiamo incontrato durante il viaggio. Valicare il confine, in Ucraina, per noi ha rappresentato il primo e l’ultimo passo di un’esperienza durata appena qualche giorno. Per molti, invece, questa è la normalità. Con lo scoppio del conflitto in tanti hanno affrontato un viaggio lungo centinaia di chilometri con l’obiettivo di superare quello stesso confine. L’attesa alla frontiera per noi è stata di circa quattro ore, per altri il doppio. In alcuni casi perfino giorni o settimane, soprattutto nei primi sviluppi del conflitto. Ad accomunare tutti, ieri come oggi, le stesse speranze.