Le polemiche interne a Fratelli d’Italia sul caso Vannacci ripropongono la questione della natura della destra italiana. Solidarizzare con un militare che dice «se pianto la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce, ammazzandolo, perché dovrei rischiare di essere condannato?» e che i gay non sono «normali» è al di là del bene e del male: e ieri abbiamo capito che il problema riguarda a pieno titolo anche il leader della Lega e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che si conferma un politico di destra.
Ora, per compiere un decisivo passo avanti sulla sua affidabilità democratica e di governo, Giorgia Meloni dovrebbe fare una vera “Bolognina della destra” ma non vuole e non può farla. Primo, per una ragione politica: non vuole perdere i neofascisti che ci sono nel suo partito e nel suo elettorato. Secondo, per una ragione personale: giacché non ha rotto e probabilmente non romperà mai con quelle pulsioni nere che sono per lei come la placenta per i feti.
Ormai gli episodi inquietanti si moltiplicano ogni giorno. Da via Rasella alla sostituzione etnica al negazionismo sulla strage di Bologna e adesso al militarismo da caserma risulta evidente che la destra italiana è piena di fascisti. Non è nostalgia, sono proprio fascisti, o per meglio dire neofascisti. Con varie gradazioni, certo, ma quello è. Il parallelo con il Pci del 1989 regge in questo senso: la “Svolta” di Occhetto compiuta alla Bolognina e con i congressi successivi segnò un punto di chiarezza, fu la prova del nove per capire chi aveva davvero rotto con il comunismo, anche nella versione italiana, e chi no.
Armando Cossutta, Pietro Ingrao e altri fecero la loro Rifondazione comunista nell’idea romantico-nostalgica che appunto il comunismo si potesse rifondare. Tutti gli altri, la stragrande maggioranza degli iscritti al Pci, seguirono Achille Occhetto, Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema, Walter Veltroni nel Pds.
Allo stesso modo oggi Meloni dovrebbe segnare un discrimine attraverso un’operazione di chiarificazione anche ideologica nonché di lettura della storia italiana. Chi non condividesse la “Svolta” meloniana avrebbe già pronta la sua Rifondazione neofascista guidata da Gianni Alemanno, il peggiore sindaco di Roma ma uomo dotato di un certo fiuto che ha capito che la “destra di governo” apre spazi a una destra-destra nel segno addirittura del Movimento sociale italiano. A occhio e croce gente come Giovanni Donzelli o Galeazzo Bignami o Marcello De Angelis, per fare i primi tre nomi che vengono in mente, sarebbero coerenti se lo seguissero.
Ma non succederà perché non ci sarà alcuna rottura del monolite nero. Giorgia Meloni non romperà mai con i neo-neofascisti che concorrono attivamente alla sopravvivenza di quel brodo di cultura nel quale la presidente del Consiglio si crogiuola come i bambini nella risacca del mare. Non essere più fascista senza essere antifascista è un esercizio difficile come camminare sul filo senza rete. E illudersi che basti la foglia di fico rappresentata da Guido Crosetto e qualche intellettualoide è un trucco che inganna i gonzi.
Alla fine, la considerazione di fondo è che nella sua perdurante ambiguità, la premier sta andando indietro persino alla Fiuggi di Gianfranco Fini che chiuse il Movimento sociale per fare nascere Alleanza nazionale.
Questo è possibile perché oggi si vede meglio la fragilità politica e culturale di Fiuggi, che in fondo, malgrado gli sforzi di Fini, si rivelò poco più che un’operazione cosmetica, tanto è vero che i colonnelli del partito si chiamavano Ignazio La Russa, Francesco Storace e appunto Gianni Alemanno, tre che sono rimasti abbondantemente “al di qua” del finismo (infatti non lo seguirono nell’avventura successiva di Futuro e libertà) – ed è verosimile che la giovane Giorgia vi abbia aderito più per l’aspetto tattico dell’operazione che per quello sostanziale. Fiuggi insomma non fu, come la Bolognina, un fatto irreversibile. Ecco perché oggi Giorgia Meloni sguazza nella brodaglia nera senza provare imbarazzo. L’importante è non perdere pezzi. Nemmeno prendere le distanze da “Minnie” Donzelli e gli altri nostalgici, meglio far finta di niente, tanto ci sarà sempre da qualche parte un Crosetto da esibire come volto del liberalismo conservatore per tranquillizzare platee dal palato fino che non sono mai salite a Colle Oppio o scese a Garbatella.