Borghesemente in bollettaGli squattrinati chic e i presunti servizi vip di un gran mitomane

I “bougie broke” sono quelli che non si rassegnano al calo del potere d’acquisto e fanno di tutto per sembrare ricchi. Ma chi è veramente ricco non ha bisogno di fingere né di intercessioni da parte di terzi, come crede un tizio intervistato dal Times che si vende come super-fixer dei miliardari

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Qualche mattina fa ero ospite d’un programma radiofonico. Subito prima di me avevano intervistato una giornalista del Corriere, Irene Soave, che a una domanda sulla maleducazione e l’aggressività aveva risposto che il problema è che non siamo mai stati così poveri, raccontando poi la storia d’un aereo rimasto fermo sulla pista coi passeggeri a morire di caldo in quell’inferno che è il turismo di massa in questo secolo.

Come tutte quelle che non hanno la risposta pronta, non ho detto quel che avrei dovuto dire quand’è toccato a me, e quindi poi ci ho rimuginato per giorni. Come tutte quelle che ci ripensano, la risposta non pronta mi si ripropone a ogni spunto, l’ultimo ieri con la classifica dei miliardari più miliardari d’Italia. Quel che avrei dovuto dire in radio è: non è vero, la verità è che non siamo mai stati così ricchi.

La gente che prende un aereo a trenta euro e viene trattata come su un carro bestiame, cinquanta (ma pure venti) anni fa non avrebbe proprio preso un aereo, non sarebbe proprio andata a fare un weekend all’estero o una vacanza d’una settimana che le costa quanto ai suoi genitori costava la spesa di alimentari: se la ricchezza non è potere d’acquisto, che cos’è? Se la ricchezza non è aver visto più mondo a trent’anni di quanto i tuoi ne avessero visto a cinquanta, che cos’è?

In America c’è da anni una polemica sull’avocado toast, usato come espediente retorico da destra per dire ai giovani lagnosi che se non si possono permettere i debiti universitari o l’assicurazione sanitaria è perché mangiano dei toast all’avocado da venti dollari, o bevono dei caffè di Starbucks da cinque.

Il problema degli argomenti di cui si appropria la destra è che poi diventano inutilizzabili anche se sono veri. Due caffè da cinque dollari al giorno sono quasi quattromila dollari l’anno.

Ogni tanto ci diciamo, tra amici, che certo, chi di noi non ha ereditato una casa starà in affitto tutta la vita, quando mai ti puoi permettere di dare un anticipo su un mutuo coi tuoi guadagni, i nostri genitori invece – e a quel punto della conversazione, si fa a chi ride prima. Perché sì, i prezzi degli immobili erano ridicolmente più bassi quarant’anni fa, ma in genere queste conversazioni si svolgono a tavoli di ristorante dove pranziamo in giorni feriali senza alcuna occasione speciale a giustificarlo.

Non è solo che quarant’anni fa il caffè lo bevevi a casa, è che i nostri genitori non pranzavano al ristorante con la nostra disinvoltura, non andavano a Londra o a Parigi con la nostra disinvoltura, non compravano bottiglie di vino da quaranta euro (in novecentese: ottantamila lire) con la nostra disinvoltura.

Nei giorni in cui ripensavo alla mia mancata risposta pronta radiofonica, mi ha soccorso il Times, quello di Londra, dove sono rimasti tra i pochi a trovare le parole per raccontare la società com’è e non come se la immaginano su Instagram. Il Times ha messo a fuoco la questione con due parole: bougie broke. Letteralmente, borghesemente in bolletta, ma se non vi spiace tradurrei, prendendo a prestito uno slittamento semantico caro agli italiani, con: squattrinati chic.

Gli squattrinati chic sono quelli che non si rassegnano al calo del potere d’acquisto e quindi comprano il tè da Tesco, che costa meno, e lo mettono nei barattoli di Fortnum e Mason, che fanno ricco. O mettono i cosmetici da poveri nelle boccette di quand’erano ricchi.

Tempo fa su TikTok avevo scoperto il commercio di buste di boutique d’alto bordo, buste vuote, sacchetti in cui le squattrinate potevano mettere i loro acquisti di basso bordo per sembrare più chic aggirandosi per la città. Un concetto evidentemente ovvio per il mio traslocatore, che mi ha frantumato bicchieri, sfasciato mobili, squarciato divani pagati un rene, ma ha trattato come un cristallo prezioso una scatola di cartone. Era perché dentro c’erano delle foto cui tenevo? No, era perché era una scatola di Hermès (in cui era contenuta una borsa che vent’anni fa potevo permettermi di comprare, scatola che in vent’anni non ho mai buttato essendo bougie broke da prima che esistesse la definizione).

Chissà se nella lista degli italiani più ricchi (tra i quali molti nomi che non so chi siano: nessuno pubblica più quelle guide ai ricchi che mi regalava mia madre da piccina sperando mi maritassi con uno che ci mantenesse tutti?) c’è qualcuno che si serve di Rey Flemings, o analoga figura. Anche di Rey Flemings apprendo dal Times, che per tutto il tempo in cui lo intervista non pare mai sospettare che sia mitomane, un dubbio che invece viene a me.

Rey Flemings è la versione personalizzata di quei servizi offerti dalle carte di credito costose: vuoi che ci siano dei quadri pazzeschi appesi in sala da pranzo quando hai degli ospiti importanti a cena? Flemings fa in modo che un museo te li presti.

Forse il mio passaggio preferito dell’intervista è quello in cui spiega di aver detto a un cliente con un patrimonio di tre miliardi e cento milioni (di dollari) che non poteva mettere il tetto di spesa per la festa dei suoi sogni a settecentomila, perché la festa dei suoi sogni costava un milione, e per trecentomila dollari in meno, che per lui non avrebbero fatto nessuna differenza, sarebbe stata una delusione. (A volte, spiega, questi plutocrati hanno attacchi di tirchieria perché si ricordano di quando quello che spendono ora per una cena non lo guadagnavano in un anno. Temo sia lo stesso problema del mutuo e dell’avocado, su scala più estrema).

Il momento in cui ho iniziato a sospettare mitomania è quello in cui Flemings si è messo a parlare dei livelli. Dice che le carte di credito per ricchi e i concierge non personalizzati arrivano al livello due. Per esempio: farti avere i pass vip per il Coachella, sono costosi ma basta pagare. Al livello tre, invece, c’è: convincere qualcuno a farti un pass artista, così puoi andare alle feste esclusive del Coachella, e lì già serve lui. Ma poi ci sono i livelli quattro e cinque, mitomaneggia quello che dice di poterteli procurare. Il livello quattro è: stai in un angolo del palco a guardare Beyoncé che canta, dove stanno la sua famiglia e i suoi amici più cari. Serve qualcuno che sappia convincere lo staff a fartici stare. Il livello cinque è: dopo il concerto vai nel camerino di Beyoncé a bere. Ti ci deve volere lei, è più difficile, concede Rey.

Sono stata su abbastanza palchi e in abbastanza camerini da conoscere una regola del mondo che mi sembra strano sia ignota al signor Flemings: le persone famose non sono insensibili alla ricchezza (anche perché la fama è una valuta, e chi possiede una valuta in genere conosce le altre). Se Isabella Seragnoli (patrimonio secondo la classifica uscita ieri: 3 miliardi e trecento milioni) o Brunello Cucinelli (tre miliardi e quattro) vogliono andare in camerino a salutare Al Bano o Bob Dylan, dubito molto che serva l’intercessione del signor Flemings.

Quando mesi fa giravano quelle immagini di Tom Hanks e Steven Spielberg che cantavano in un angolo del palco mentre Springsteen suonava per la folla “Because the night”, era perché un mitomane aveva offerto i suoi servigi, o perché i ricchi e famosi si frequentano tra di loro più naturalmente di quanto frequentino noi squattrinati chic?

Oltretutto Flemings dice che mica bastano i soldi, per diventare suo cliente. C’è il test di ingresso (con domande come «Hai vinto al gioco della vita?», «Cosa pensi diranno di te gli invitati al tuo ottantacinquesimo compleanno?»), perché lui mica fa affari, macché: come qualunque influencer, lui costruisce una community.

«Il nostro obiettivo è creare una comunità con le diecimila persone più di successo, socialmente responsabili, fighe, interessanti e amabili del pianeta». Ma, figlio mio, se io fossi un’amabile multimiliardaria nonché figa nonché di brillante conversazione nonché dedita alle buone cause, se io fossi tutte queste cose invece che una che si percepisce benestante perché può permettersi l’avocado e l’Easyjet per Parigi, non pensi che Beyoncé m’inviterebbe spontaneamente in camerino?

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