Nel calcolo dei danni provocati dal cupio dissolvi del fu Terzo Polo, bisognerebbe misurare anche gli effetti collaterali. Tra questi, il rimbalzo negativo che l’implosione ha avuto sulla speranza di reintrodurre una presenza liberale in un sistema politico devastato da una serie di leggi elettorali sempre peggiori, che hanno penalizzato l’esistenza di minoranze culturali, in nome di un salvifico maggioritario («o di qui o di là») mescolato con un proporzionale un tanto al chilo, orientato solo a proteggere gli intoccabili (non uno tra i leader del Partito democratico si è presentato nel 2022 al maggioritario, tutti col paracadute proporzionale).
Presenza liberale che, se autentica e non solo autoproclamata, è sempre difficile in un Paese già di suo corporativo, fazioso e, come ha scritto Angelo Panebianco, appassionato agli antagonismi. Per di più, recentemente afflitto dall’infezione populista, che della democrazia liberale è l’antitesi.
Il Terzo Polo non è di per sé un partito liberale. È però un’opzione alternativa proprio al bipopulismo e una via di fuga alla scelta obbligata tra riformismi deboli e confusi: l’Antonio Tajani subordinato ai post missini e la Elly Schlein ipnotizzata dai post grillini.
È anche per questo che la miriade di sopravvissuti gruppi liberali (ciascuno talmente piccolo da essere irrilevante) ha visto nella nascita del Terzo Polo e nel successo dell’operazione 2022 di Carlo Calenda e Matteo Renzi una prospettiva da incoraggiare.
È la speranza un po’ equilibristica della “terza gamba del Terzo Polo”, che doveva essere la premessa di un partito unico (sarebbe stato meglio chiamarlo unitario) collocato non in mezzo ai due poli, ma – come molti avevano vagheggiato – addirittura in grado di far da contraltare al regime complice e convergente dei due poli esistenti.
Beninteso, mantenendo ben chiare le differenze con gli esistenti partiti parlamentari Azione e Italia Viva, perché la terza gamba voleva comunque correre in autonomia, con una sua identità. Già, perché i liberali sono per natura autoreferenziali e non concedono facilmente patenti di liberalismo ad altri. Un conto è un’alleanza tra simili, un conto è confondersi e mescolarsi troppo.
Fanno oggi un po’ sorridere, dopo il disastro, queste distinzioni e i relativi dibattiti interni al mondo liberale su chi fosse, tra Renzi e Calenda, più vicino ai canoni del liberalismo del nuovo millennio. Intanto perché un liberale, convinto solo dei suoi dubbi, non può permettersi di rilasciare certificazioni, e poi perché ben altre erano evidentemente le urgenze e troppo fragile l’intesa auspicata.
Molti avevano peraltro già aderito individualmente ai due partiti, scegliendo sempre un po’ il male minore, ma appunto lasciando la porta aperta a un proprio partito che si chiamasse liberale. Un modo per sentirsi più a proprio agio che non in casa di Matteo Renzi, l’ex giovane democristiano affascinato da Giorgio La Pira, diventato garantista con leggero ritardo, solo cioè dopo aver conosciuto la Procura di Firenze, o in casa di Carlo Calenda, che aveva la fortuna di non avere trascorsi compromettenti di partito, era affiancato da un Enrico Costa garantista doc, e aveva solo il difetto di mettere insieme alla rinfusa liberalismo, popolarismo, socialdemocrazia e mazzinianesimo. Tutti mescolati. Essere liberale non bastava.
Tutte in verità inezie, ideologismi superabili, rispetto al panorama insopportabile di un’Italia da due decenni alla ricerca masochistica del “proviamo anche questi”, ultimamente diventata improvvisamente di destra dopo un apprezzamento quasi unanime per Mario Draghi e non aver però cancellato del tutto demagogia e approssimazione, aggirandosi tra le macerie del grillismo alla ricerca di qualche reddito elargito.
Quanto ai liberali, appena riemersi dall’oblio, e immediatamente presi a discutere innanzitutto al proprio interno sui problemi del proprio ombelico (perché l’individualismo liberale confligge con l’idea stessa di un partito e della sua necessaria disciplina) non si sono accorti che il progetto non aveva più le due gambe necessarie per reggersi in piedi.
E così, in verità come un po’ tutti e come gli stessi aderenti ai due partiti, sono stati presi alla sprovvista dalla fine del tentativo unitario.
Solo ai leader era sembrato alla fine meno importante la grandezza dell’obiettivo politico rispetto al sospetto reciproco di prevalenza. Un caso da manuale di non politica.
E adesso? Adesso, l’effetto collaterale distruttivo di questo scontro, appare più grave per un partito mai nato che non per i due soggetti bene o male già esistenti. Giunti a questo punto, cioè, meglio chiudere la telenovela Renzi/Calenda. Fallito il Terzo Polo, abortito il partito unico, diventa solo accanimento terapeutico insistere per trovare nei regolamenti parlamentari l’espediente opportunistico per far sopravvivere un’intuizione. Perché se l’intuizione di uno spazio alternativo al bipopulismo è sbagliata, si manterrebbe in vita solo una finzione utile per pochi diretti interessati a lucrare un piccolo potere contrattuale sul mercato parallelo dei cambi di casacca.
Se invece l’intuizione resta in realtà una buona idea, forse per Italia Viva e Azione vale l’opzione cinica di sfruttare i vantaggi della divisione, visto che non si è stati capaci di sfruttare quelli dell’unione. Si consideri un fatto che in sè appare stupefacente, e cioè la testarda conferma di favore dei sondaggi.
Sommando le rilevazioni dei due partiti divisi, si arriva non lontani dal risultato elettorale del 2022, che fu insieme del 7,8 per cento. Ora mediamente si può parlare di un 4+3 = 7, e questo nelle condizioni politiche peggiori, con un litigio per futili motivi al giorno.
In fondo, come si osservava all’inizio, in Italia le unioni anche più razionali, senza cene al Twiga, non hanno avuto mai fortuna. Giuseppe Saragat spaccò un televisore quirinalizio con un bicchiere (di Barbera, si diceva…) avuta notizia dell’esito fallimentare dell’unità socialista, che pure era sacrosanta e basata come qui su principi allora ormai comuni di Psi e Psli. Pri e Pli tentarono assieme ai radicali di Marco Pannella un’operazione simile alle Europee del 1989, ma erano più forti, o meno deboli, se separati.
Quindi, cari renziani e calendiani litigate pure, non è detto che sia un male. Magari continuate a farlo sulle cose minori. Importante è che gli obiettivi di fondo siano confermati. Non è poi così difficile.
Gli elettori di questo nuovo centro bicefalo magari troveranno gusto a scagliarsi gli uni contro gli altri, in una competizione bizzarra ma sana. Se l’esito del voto sarà in entrambi i casi sopra il quattro per cento le europee saranno un successo.
Paradossalmente, potranno continuare con i personalismi che tanto amano (finché i due leader si stancheranno?) ma alcuni principi base difficilmente li vedranno divergere. La comune avversione per i Cinquestelle dovrebbe essere l’assicurazione sulla vita di questa convivenza al centro. E lasciate pure che sospettino giochini di Renzi con il centrodestra e di Calenda con il centrosinistra. Se servono per agitare le acque possono essere persino benefici.
Il problema resta dunque tutto dei liberali, rimasti con il cerino in mano. Nei mesi della crescita delle speranze sembrava essere emersa – nel grande arcipelago dell’associazionismo liberale: mille sigle fantasiose, gelose l’una dell’altra – una certa leadership dei Liberali Democratici Europei (Lde), il raggruppamento inventato meritoriamente da quattro cavalieri dell’apocalisse (Sandro Gozi, Oscar Giannino, Alessandro De Nicola e Giuseppe Benedetto) che sembrava più forte perché frequentato ogni tanto dai pur diffidenti Calenda, Renzi e Della Vedova, e soprattutto perché grazie a Sandro Gozi aveva un filo diretto con l’Eliseo, la grande speranza liberale in Europa.
Ma Lde, dopo la rottura tra Renzi e Calenda, ha perso la sua ragion d’essere, scritta in uno Statuto sottoposto per otto mesi a vari studi notarili, che esplicitamente prevedeva una fase transitoria in vista del partito «unico». Opzione tramontata per tutti, ma non per i Liberali Democratici Europei, che con tutta evidenza, per sopravvivere, dovrebbe resettarsi, elaborare una linea politica oggi inesistente, superare soprattutto l’illiberale pretesa di avere al comando a tempo indeterminato un quadrunvirato con pieni poteri, cosa inaccettabile per tanti raggruppamenti non entrati proprio per questo nella federazione ipotizzata. Tra questi, Forum Liberale, fondato a Matera nel 2022 e capace di attrarre quasi tutti gli ex Pli, forte di un nutrito gruppo giovanile, e capace di elaborare contenuti di qualità in convegni svoltisi con successo a Milano, Torino, e presto a Bologna.
Unico spiraglio nuovo la nomina a Presidente, come sempre dall’alto e senza regole e votazioni, ma politicamente importante, di Andrea Marcucci, uscito dal Partito democratico. Da lui, molte delle associazioni liberali si attendono un segno di rilancio, allargamento e unità. Ma, qui è il problema, per fare cosa? Possono ancora, i liberali, sperare in un loro partito che corra accanto e in appoggio ai due contendenti di centro? C’è uno spazio che non sia dell’uno per cento?
Meglio piuttosto rinunciare all’operazione partito e scegliere ciascuno di accasarsi dentro Italia Viva o Azione a seconda dei gusti personali per avere alla fine degli esponenti da sottoporre al voto di preferenza delle Europee? Allo stato attuale, questa sembra la probabilità più forte, prendendo atto però di un sogno da rimettere dolorosamente nel cassetto, quello di riallineare l’Italia a quei Paesi europei che hanno la fortuna di una presenza liberale nel sistema.