L’infernoGiunta, i’ vorrei che tu e Guccini ed io sentissimo solo canzonette

Dante raccontato da Claudio Giunta e letto da Guia Soncini come se i sonetti fossero la stessa cosa delle canzoni: mettono in rima il mondo, che è l’unico modo per rendercelo memorabile

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Qualche tempo fa, Claudio Giunta ha recensito un mio libro. A un certo punto della recensione diceva – cito a spanne – che non avevo i tic accademici, non essendo laureata, e questa era una forza ma anche un limite, perché insomma mica si può pensare che raccontare quel che ti è successo all’asilo valga quanto citare quel che è successo all’università a Kant.

La trovai una critica molto tenera – solo uno cresciuto al liceo classico e residente in ambiente accademico può pensare che una che sceglie di raccontare cosa le è successo all’asilo lo faccia per mancanza di alternative e non perché ha scientemente deciso che sia più utile che dire al lettore «Ehi, ho letto i libri giusti» – e probabilmente me ne sarei dimenticata dopo dodici secondi.

Ma la recensione uscì di domenica, e il lunedì mattina alle otto mi telefonò un editore con cui parlo raramente, e la sua telefonata si aprì così: perché il professor Giunta ti bullizza per non esserti laureata? (Non metto le virgolette ma è come se ci fossero: mica penserete io possa mancare così tanto di gusto da scegliere il verbo «bullizzare»).

No, questo non è un altro articolo sui titoli di studio: è un articolo su Dante, quindi sulle canzonette, quindi sulla cultura popolare, quindi sul tessuto connettivo (lasso) di questo disgraziato paese.

Quando penso a Guccini, una delle prime cose che penso è quant’è stato bravo a farci squarciagolare testi che non ci somigliavano per niente. Certo, abbiamo avuto vent’anni in un secolo in cui era meno affannosa la ricerca in ogni consumo culturale del perfetto specchio in cui ritrovarci, ma io perché mi struggevo su «e mi pagavi il cinema stupita, e non ti era toccato farlo mai», non avendo mai avuto un fidanzato povero?

A un certo punto della canzone che dà il titolo a questa paginetta, Guccini dice «chiedo tempo: son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato». È un vero mistero perché io, che della razza mia son la prima a non aver studiato, mi senta tanto rappresentata da quella canzone sul primo laureato di famiglia.

Però ora Giunta si è messo lì e ci ha spiegato canto per canto l’inferno di Dante, che per me che ho fatto due volte la terza liceo è una terza visione, e ogni tanto leggendolo borbottavo «sì, prof, questa la so», e in una pagina di “Inferno” (lo pubblica Feltrinelli, esce oggi) ho trovato la perfettissima descrizione di noialtri che della razza nostra eccetera: «La scelleratezza del singolo, insomma, stingeva sul blasone e sulla reputazione della città che gli aveva dato i natali». Guccini non avrebbe saputo descrivermi meglio.

Poi, certo, a questo punto ci vorrebbe una citazione accademica, ma siccome sono dispettosa vorrei invece insistere sulle canzonette, che sono importantissime non solo per noialtri ciucci che abbiamo spesso e volentieri preso tutte le materie a settembre.

Giunta lo sa benissimo: cita Frank Zappa sulla corruzione dell’intelletto di noialtre servette che impariamo il sentimentalismo dalle canzoni; ma siamo noialtre servette che quando la prof spiegava Paolo e Francesca riconoscemmo Venditti – o, a seconda delle generazioni, Jovanotti, porco cane – ad aver reso Dante cultura popolare, e non una cosa che ti dimentichi appena uscito da scuola.

È per quelle come noi che urlarono al saccheggio di Venditti, mica per Giunta che già liceale in Francesca da Rimini rivedeva Emma Bovary, che c’è un tal numero di versi danteschi nel frasifattismo di chi per il resto si esprime tramite spot e proverbi. È per noialtre che solo per ragioni di mode culturali non leggiamo più Carolina Invernizio che, ogni volta che in una chat di suoi adoratori Morgan si lamenta di qualche ingiustizia immaginaria, sempre sempre sempre c’è qualcuno che risponde: non ragioniam di loro (facendolo infuriare vieppiù, giacché Morgan le chat di adoratori ce le ha apposta per lamentare ingiustizie immaginarie: chissà cosa credono d’esser lì a fare). Niente ti rende popolare come essere materiale da canzonetta, neanche essere materiale da calendario di Frate Indovino.

Le canzonette sono così importanti che dopo aver letto la descrizione della scena di George Orwell che non riesce a sparare al soldato nemico perché quello si sta reggendo le braghe acciocché non gli calino – la riesuma Pierluigi Battista in “I miei eroi”, il suo libro su Orwell e Arendt e Camus che esce oggi pubblicato dalla Nave di Teseo – io ho passato il resto del pomeriggio a canticchiare «e mentre gli usi questa premura, quello si volta, ti vede, ha paura».

Lo so che Giunta a questo punto sta respirando in un sacchetto, ma vorrei insistere (son della razza mia di grandissima lunga la più cocciuta). Le canzonette fanno la stessa precisa cosa che faceva Dante: mettono in rima il mondo, che è l’unico modo per rendercelo memorabile. Sperando che il sacchetto serva a temperare l’attacco di panico, aggiungo che se mi ricordo quel Flaubert citato da Giunta per spiegarci la “Divina commedia” – quello che, lamentandosi d’un dialogo che deve scrivere, sospira «Almeno avessi un po’ di spazio!» – è solo per quel Lucio Dalla che «Almeno non ti avessi incontrato».

Una cosa che potrebbe fare la scuola, per rendercisi utile quanto le canzonette, è unirci i puntini. Quando Giunta difende gli ignavi scrivendo del padre di Proust (sì, vabbè: dell’io narrante) che non lo sgrida perché «poiché non aveva princìpi (nel senso della nonna), non aveva una vera e propria intransigenza», io mi chiedo perché la scuola funzioni per secoli e non per temi.

Se non avessi fatto l’Inferno in terza (in tutte le terze che ho frequentato) e Proust in quinta (una sola volta, miracolosamente), magari non sarei dovuta arrivare alla mia vegliarda età per vedere questa associazione. L’ho detto a un amico che insegna al liceo, mi sentivo intelligentissima e pronta a proporre riforme scolastiche. Mi ha risposto: Proust lo fate solo voi del linguistico. Ha pronunciato «linguistico» col tono che io uso per «giuoco del calcio». Devo presentargli Giunta.

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