EscamotageCrisi climatica e diritti umani devono camminare insieme, anche in tribunale

La causa dei sei giovani portoghesi potrebbe permettere ai contenziosi climatici di raggiungere il livello successivo, obbligando i Paesi ad approvare nuovi (e urgenti) piani d’azione per arginare la più grave emergenza del nostro tempo

Ethan Cairns/The Canadian Press via AP

Il cavallo di Troia dell’attivismo climatico entra nel palazzo di vetro e acciaio della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a Strasburgo. Il 27 settembre 2023, per la prima udienza della più grande causa sul clima mai portata in tribunale: il contenzioso Duarte Agostinho. Sei giovani portoghesi contro trentadue Stati europei – Italia compresa – che potrebbe costituire un precedente per le future climate litigation. L’escamotage è unire la lotta al cambiamento climatico ai diritti umani.

L’udienza è attesa da diversi anni. Nel 2017 gli incendi boschivi bruciano l’entroterra del Portogallo come mai prima: centoquindici morti, un miliardo di euro di danni. In fiamme migliaia di pini, ulivi e eucalipti. Alberi non autoctoni e non resistenti alle fiamme, suoli aridi per la siccità, temperature sopra la media del periodo. Crisi ecologica e climatica a cui hanno assistito tre fratelli – Cláudia, Martim e Mariana Duarte Agostinho (ventiquattro, venti e undici anni) – e Catarina dos Santos Mota, ventitré anni. Da quel momento, con altri due giovani portoghesi, hanno deciso di fare causa a diversi Paesi europei per inadempienza climatica.

A spiegare a Linkiesta le basi giuridiche di questi contenziosi è Agostina Latino, analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) e docente di Diritto all’università di Camerino e alla Luiss. «Le controversie giudiziarie per il clima agganciano la tutela dell’ambiente a quella dei diritti umani rendendo quindi le questioni legate al riscaldamento globale “giustiziabili”». Nel caso Duarte Agostinho, i querelanti sostengono che l’emergenza climatica minacci i loro diritti fondamentali. Gli articoli a cui fanno riferimento – e per i quali si sono rivolti alla Cedu – sono il due, il quattro e il quattordici della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto alla vita, alla vita privata, alla non discriminazione. A violarli sono i trentadue Paesi che non stanno facendo abbastanza per mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Nello specifico, non stanno rispettando l’accordo di Parigi che gli stessi Stati hanno ratificato impegnandosi a ridurre le emissioni per mantenere l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi.

«Le politiche climatiche dei governi europei sono in linea con un catastrofico scenario di aumento di temperatura di tre gradi in questo secolo. Per i giovani richiedenti è una condanna a vita a temperature estreme», ha dichiarato Gerry Liston, avvocato che sta conducendo la causa. «La Cedu è stata istituita dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale per chiedere conto ai governi della mancata tutela dei diritti umani. Mai come in questo caso è urgente che la Corte agisca», ha aggiunto.

Come spiega la professoressa Latino, l’accordo di Parigi ha un problema perché «obbliga gli Stati a definire piani nazionali che tengano conto della scienza del clima, ma li lascia liberi di stabilire in che misura ridurre le emissioni. Nel precedente protocollo di Kyoto, invece, gli Stati elencati nell’allegato B del documento redatto in Giappone erano tenuti a realizzare un preciso livello di riduzione delle emissioni, e quindi il vincolo che avevano assunto era di fatto un obbligo di risultato». Per questo, ora, sembra indispensabile unire la generica obbligazione climatica dell’accordo di Parigi alla tutela dei diritti umani.

All’udienza della Cedu ci sarà anche Luca Saltalamacchia, avvocato italiano che di climate litigation ne sta seguendo cinque, tra cui la causa Giudizio universale contro l’Italia. «È un incontro importante a cui vado da uditore per confrontarmi con altri giuristi che lavorano per l’ambiente. Questi contenziosi possono essere fondamentali per la riduzione delle emissioni», dice a Linkiesta.

Oltre alle cause contro i governi, ci sono anche climate litigation che hanno citato in giudizio aziende multinazionali che emettono grandi quantità di gas climalteranti. Le aziende hanno delle responsabilità secondo l’articolo 2.043 del codice civile: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il  fatto a risarcire il danno», e – come spiega Saltalamacchia – è questa la norma a cui i contenziosi climatici contro le imprese fanno appello. L’esempio dell’avvocato è chiaro e applicabile alle emissioni di gas climalteranti prodotte all’estrazione di combustibili fossili, dagli allevamenti intensivi o da altre attività industriali: «Se per la comunità scientifica l’amianto è un materiale cancerogeno, le aziende non possono venderlo, anche in assenza di una legge specifica che lo vieta».

A parlare con Linkiesta è anche Attilio Pisanò, professore ordinario di Filosofia del diritto all’università del Salento e autore dell’opera “Il diritto al clima”. «I processi per il clima sono importanti perché consentono a attivisti e attiviste di partecipare alle politiche di mitigazione del cambiamento climatico. La via giudiziaria, però, presuppone condizioni particolari che non sono universali, ed è percorribile solo nelle democrazie genuinamente costituzionali, che comunque di solito coincidono con i Paesi che hanno maggiore responsabilità storiche per l’emergenza climatica. Si fa fatica a pensare che la strada giudiziaria possa essere efficace in Stati come Cina, Russia o autocrazie le cui economie dipendono esclusivamente dall’utilizzo dei combustibili fossili».

La causa Duarte Agostinho va, però, oltre i confini politici e geografici del Portogallo. La crisi climatica è una questione globale: l’atmosfera non ha barriere fisiche riflesso delle frontiere nazionali. I cittadini portoghesi hanno quindi deciso di fare esaminare il caso a un tribunale sovranazionale: il primo ricorso sul cambiamento climatico mai presentato alla Cedu.

La sentenza è prevista per la prima metà del 2024. Tutte le pronunce della Cedu hanno efficacia esecutiva indiretta. Significa che obbligano gli Stati – i quarantasei Paesi del Consiglio d’Europa giudicabili dalla Corte – a rispettarne le sentenze attraverso le misure che ritengono più idonee. Come spiega la professoressa Latino, se la Cedu darà ragione ai ricorrenti del caso Duarte Agostinho, i trentadue Paesi convenuti saranno costretti a nuovi e più rapidi piani di azione per il clima. Inoltre – sempre secondo Latino – «poiché le pronunce giudiziarie della Cedu hanno un’influenza sulle cause intentate davanti ai tribunali nazionali in Europa, la sentenza di questa climate litigation darebbe a chi deciderà di intraprendere future cause sul clima a livello nazionale una base molto più solida su cui argomentare i loro casi».

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