Ci sono passaggi politici che non è esagerato definire storici, come quello che stiamo vivendo, segnati dall’incalzare turbinoso degli eventi economici, della rivoluzione tecnologica, di una guerra in Ucraina, della competizione con il dragone cinese, dai biblici movimenti migratori.
Di fronte a queste scosse telluriche il governo italiano, i partiti che lo sostengono e i leader che lo guidano, segnano il passo, sbandano, si contraddicono, perdono tempo a polemizzare con Paolo Gentiloni che a loro parere dovrebbe fare il commissario tecnico della nazionale azzurra. Soprattutto ora si fanno del male.
Matteo Salvini sta scaricando tutta la colpa dell’emergenza migranti su Giorgia Meloni, afferma che non sono servite a nulla i viaggi in Tunisia, che l’Europa di Ursula von der Leyen è sorda e allora meglio fare da soli, chiudere i porti, come faceva lui. Una attacco furibondo. Una sconfessione della strategia del Piano Mattei in piena regola.
Meloni vive una dicotomia irredimibile tra aspirazioni da statista europea e ritorni di fiamma identitari. Ma deve decidere cosa vuole essere nei prossimi dodici mesi, dopo il rodaggio del primo anno di governo. Una mano, a capire la direzione da intraprendere, ancora una volta, gliela potrà dare Mario Draghi. Per ironia della sorte, l’ex premier, il fuoriclasse che l’Italia vanta, è tornato a essere un problema e un’opportunità per la premier e per la sua maggioranza che lo ha disarcionato nel 2022. Non fatevi ingannare dalle parole della stessa Meloni e del ministro Francesco Lollobrigida che fanno finta di applaudire ed elargiscono elogi pelosissimi. Più sincero Matteo Salvini che, per non fare polemiche, ha detto di non pensare nulla dell’incarico che Ursula von der Leyen ha affidato all’ex presidente della Banca centrale europea di redigere uno studio sulla competitività e i grandi temi economici.
Cosa scriverà Draghi è il vero problema di Meloni, perché parlerà dell’Europa del futuro. Il lavoro dell’ex premier sarà noto dopo le europee di giugno prossimo, ma il suo pensiero lo ha espresso in diverse uscite e sull’Economist. Sarà il cuore della campagna elettorale: la scelta tra «paralisi, uscita o integrazione». Integrazione che significa molta più Europa, più federalismo, «confrontarsi con shock comuni esterni come la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina. Shock troppo grandi perché un Paese riesca a gestirli da solo».
Lo stesso contrasto all’immigrazione e il Pnrr sono solo due esempi. Gli investimenti necessari sono enormi, ragiona Draghi, è necessaria una strategia federale di cui l’Unione europea ancora non dispone, gli stessi aiuti di Stato rischiano di farci perdere tempo rispetto alla necessaria rapidità che deve essere chiesta all’Unione europea per non finire definitivamente nel girone minore del futuro industriale a vantaggio di aree del mondo «che si impongono meno vincoli».
Questa è la lunghezza d’onda del pensiero di Draghi, che non ha nulla che fare con «l’occhio di riguardo» e la «maglia della nazionale» che Meloni e Salvini invocano. Stiamo parlando di un passo diverso, di uno standing elevato, di una visione di grande respiro che non significa appiattirsi al mainstream. Ma nella capitale ungherese, dove si trovava per partecipare al Demographic summit, Meloni è tornata a chiudersi nella ridotta identitaria insieme a Viktor Orbán, che attacca le «élite liberali» che vorrebbero decidere a casa degli altri. Dunque i sovranisti sono chiamati da Meloni a «una grande battaglia per difendere la famiglia, perché in questo modo si difende Dio, la nostra identità». Senza identità, invece, «siamo solo numeri senza coscienza, oggetti nelle mani di chi vuole usarci». L’Ungheria? Un modello nel campo delle politiche attive per la natalità, e non solo. Un modo per lisciare il pelo all’ostico magiaro in funzione del secondo round della visita di Meloni a Budapest
I due infatti poi sono visti alla Karmelita Kolostor, negli uffici del primo ministro ungherese. Nella nota ufficiale della presidenza del Consiglio italiano c’è una notiziona, viste le posizioni di Orbán su Mosca: la condanna dell’aggressione russa e «l’importanza di mantenere la forte unità degli Stati membri dell’Ue in un sostegno ampio e multidimensionale all’Ucraina». La conversione sul Danubio ha tanto il sapore di manovra elettorale e fa capire che forse siamo alla vigilia dell’entrata di Fidesz, il partito al potere a Budapest, nella famiglia europea dei Conservatori nella quale i Polacchi hanno sempre messo come discriminante la trincea anti russa.
Sarebbe uno smacco per Matteo che ha provato per anni a portarsi Orbán nel girone dantesco di Identità e Democrazia. Senza esito. Sembra che ci sia riuscita Meloni, che adesso avrebbe un altro pezzo di artiglieria per affrontare le europee, portare una corposa truppa al Parlamento europeo e impegnarla nel momento in cui dovrà essere composta la nuova Commissione europea.
È tutto qui il problema, la madre di tutte le battaglie, ma la premier si copre a destra, anche in Italia, rischiando il cortocircuito. Non vuole lasciare a Salvini spazio, non si evolve in una nuova destra europea. È un continuo ritorno di fiamma che permane nel simbolo di Fratelli d’Italia. Ma è un pericolo per l’interesse dell’Italia dover scendere a compromessi con Orbán, oltre alle discussioni identitarie su Dio, Patria e Famiglia, con chi propugna la democrazia illiberale, che è sotto processo a Bruxelles per violazione dello Stato di diritto, nemico di ogni accordo sull’immigrazione come quello fallito, a causa degli ungheresi e dei polacchi, sulla distribuzione dei migranti.
E si ritorna sempre a Draghi, alle sue tre opzioni: «Paralisi, uscita o integrazione». Ecco, alla fine il ritorno di fiamma di Meloni non si spiega solo come la reazione ai dossier europei e italiani in cui è in difficoltà. Si spiega meglio alla luce delle affermazioni fatte dal capo gruppo dei Popolari Manfred Weber in aula a Strasburgo, dopo il discorso di Ursula von der Leyen, ricandidata alla presidenza della Commissione europea: i futuri assetti di potere europei poggeranno comunque sull’intesa tra Popolari, Socialisti, Liberali e gli eletti francesi sotto la bandiera dì Emmanuel Macron.
La nomina di Draghi, in sostanza, va in questa direzione. Affermazioni fatte la scorsa settimana dallo stesso Weber in un’intervista al Corriere della Sera e che avevamo riportato in un nostro articolo per spiegare che il terrore di Meloni è di essere costretta all’abiura, ad allearsi con la sinistra europea se vuole entrare nella stanza dei bottoni di Bruxelles. Il terrore di doversi accodarsi e seguire come l’intendenza. Le direbbero di essere la classica utile idiota, una traditrice, Salvini è pronto quando sventola la clausola anti-inciucio. Che lui non ha mai rispettato, tra l’altro. A lei questa prospettiva la manda ai pazzi.
Lei ha una sola possibilità per gestire questo passaggio verso l’inevitabile forca caudina e non perdere, oltre l’onore, anche il governo. Con la scusa che bisognerà presto trovare un’intesa sulla manovra finanziaria, dovrà trovare il tempo di stringere un «patto di convivenza elettorale» con Salvini, ma anche con Tajani. Questo significa accettare che il leghista faccia la parte della destra più truce mentre il forzista il moderato liberale europeista che va in giro con la santina di Silvio Berlusconi. Far perdere nelle urne troppa quota agli alleati è il rischio peggiore per Meloni, la quale dovrebbe voltare più alto, mettersi più in sintonia con i pensieri lunghi di Draghi, prepararsi a un altro bagno di realtà europea, dopo quello di governo, senza avere paura della bagno di sangue elettorale.
Temiamo che prevarrà la logica delle emergenze e quella di non avere mai nemici a destra. A tenerla stretta a terra è l’incredibile opposizione interna che le ha scatenato Salvini sull’immigrazione. Dargli spazio va bene, ma farsi dire che è incapace a gestire la mareggiata di migranti Meloni non può accettarlo, per un pugno di voti.