E d’improvviso qualche ondina nello stagno riformista. Con Carlo Calenda che diventa l’approdo prima di una trentina di dem liguri e ieri della ex ministra Elena Bonetti che ha lasciato Italia Viva (pur senza entrare formalmente in Azione), un uno-due che ha rafforzato in lui l’idea che il suo partito possa fare da solo quello che il Terzo Polo doveva essere e non è stato, un’alternativa al bipopulismo imperniato sul doppio radicalismo Meloni-Schlein.
Vedremo se questo progetto avrà fiato – Calenda ha parlato di «un nuovo partito» per l’autunno – ma quel che anche un bambino capisce è che Azione, o Azione 2, mangia l’erba nello stesso pascolo di Italia Viva e che questo «assedio reciproco», come diceva Antonio Gramsci a proposito di ben altri problemi, rischia di concludersi in una disfatta di entrambi.
Nella competition tra Calenda e Matteo Renzi la scelta di Bonetti, largamente prevista, segnala un’ansia di fare qualcosa di nuovo, di uscire cioè dallo stallo riformista di questi mesi, che è poi la stessa ansia che deve essere alla base della scelta dei “liguri” di abbandonare il Partito democratico schleinizzato, giudicato radicale (Stefano Bonaccini) e minoritario. Si ha cioè l’impressione che tra i riformisti ci sia un’agitazione direttamente proporzionale alla crescente insofferenza verso lo strapotere politico e mediatico della coppia Meloni-Schlein.
Ma il paradosso di questa situazione è che continua a mancare un progetto per trasformare l’agitazione in qualcosa di più serio mentre tutte le “case” politiche scricchiolano. Guardate la condizione dei riformisti del Partito democratico: che fare? Andar via non si può, restare è un dramma.
Il dilemma si presenta come una di quelle equazioni che al liceo facevano impazzire: quelle irrisolvibili. Andare via non è possibile per almeno due ragioni: primo, dove andare? Secondo: regalare il partito a Elly? Dove finirebbero i riformisti? Non c’è nulla di pronto per fare l’ennesimo partitino e non è nemmeno da prendere in considerazione l’idea di andare con Calenda o con Renzi, due che i riformisti dem considerano per varie ragioni inaffidabili, e non ha molto senso la chiamata di Antonio Tajani.
Quanto alla conseguenza di una scissione, sarebbe un errore lasciare a Elly mano libera per realizzare davvero l’“occupy Pd”. Dunque nessun dubbio che non ci sarà alcuna scissione, e che quindi si darà battaglia dentro il partito. Ma come? Esclusa la possibilità di cacciare la leader con le buone o con le cattive, resta sul tavolo la tradizionale tattica di una minoranza, quella di influire sulle scelte della leader e indurla a mediazioni. Ma condizionare Elly non appare poi tanto semplice. Non è chiaro se per una scelta consapevole o per una sorta di inerziale ingenuità, Schlein appare più “tosta” di quanto le sue movenze gentili e l’eloquio pacato suggeriscano. La reazione alle uscite dei dem liguri è apparsa sprezzante, non è stata «un’alzata di spalle» come aveva patentato Piero Fassino, è stata molto peggio.
Adesso ci sarà la solita richiesta di tenere una riunione della Direzione e vedremo se la minoranza una volta tanto alzerà la voce o se finirà come al solito a tarallucci e vino. Alla prima occasione Alessandro Alfieri, della minoranza, uscirà dalla segreteria.
La novità potrebbe venire da alcuni che hanno sostenuto Schlein ma non fanno parte del “giro” della segretaria, gli Andrea Orlando, i Giuseppe Provenzano, i Gianni Cuperlo, qualcuno dell’area Franceschini potrebbero dire a Elly: cambia qualcosa della tua linea e del tuo atteggiamento perché così rischi di perdere altri pezzi. Che poi lei li stia a sentire è un altro paio di maniche. Intanto ci si agita, che è comunque una prova di esistenza in vita.