Io sono OrianaIl mestiere di moglie, l’adulterio istituzionalizzato e la retorica scarsa della sinistra

Cinquant’anni fa la Fallaci scriveva che il divorzio rafforza le unioni: può tornare utile a Meloni per ribattere a quelli che le rinfacciano «e allora, come la mettiamo con la famiglia tradizionale»

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«A me dà fastidio questo senso del possesso che c’è nel matrimonio: questa palla al piede che ti impedisce di correre e saltare e arrampicarsi sugli alberi. Ed è inutile che io berci tanto contro i padroni, il padrone Stato, il padrone Chiesa, il padrone capitale, se poi accetto un individuo padrone che si chiama marito».

È il 1974. Oriana Fallaci ha 45 anni: ha già intervistato Kissinger e Golda Meir, già fatto i reportage di guerra, già scritto il libro che l’anno dopo ne farà la beniamina del ceto medio dolente, “Lettera a un bambino mai nato”. È più che mai Oriana Fallaci, quando butta giù questi appunti sul matrimonio che verranno pubblicati nel secolo successivo, in “Solo io posso scrivere la mia storia”.

«Non mi sono mai vista chiusa a chiave nella famiglia. Il mestiere di moglie mi inorridiva». Fallaci era nata nel 1929, un anno di ribelli agli schemi del loro tempo (Natalia Aspesi è sua coetanea), che era un tempo con un vantaggio: offriva schemi ai quali ribellarsi.

Oggi che facciamo finta che il mestiere di moglie non esista, che queste parole non vogliano dire niente, che i ruoli non siano più cristallizzati, oggi che vantiamo come conquiste di civiltà i padri che cambiano i pannolini (invece di scandalizzarci perché andiamo su Marte ma i neonati se la fanno ancora addosso e dove diamine è il progresso), oggi per fortuna che c’è Giorgia Meloni che fa ciò che sua nonna non si sarebbe potuta permettere – separarsi – e nel farlo dà modo alla parte retoricamente più scarsa della sinistra di dire: ah, e allora la famiglia tradizionale.

Qualche anno fa, credo di averlo già raccontato, un giornale americano m’intervistò su un libro che avevo scritto, una storia sociale dell’adulterio, che poi era una ricognizione del matrimonio all’italiana, così diverso da quell’isteria statunitense del divorziare e risposarsi cento volte.

Raccontai all’intervistatrice le storie che gli italiani conoscono a memoria: Marcello Mastroianni che non lascia mai la moglie nonostante con Catherine Deneuve faccia perfino una figlia; Vittorio De Sica e la sua doppia vita; Eugenio Scalfari e il suo secondo matrimonio sospeso per decenni, provvisoriamente adulterio fino alla vedovanza e alla celebrazione di nozze senili che era come fossero già avvenute molti decenni prima.

Prima della pubblicazione, la giornalista mi scrisse preoccupata: l’ufficio legale temeva querele per le cose diffamatorie che dicevo di questi uomini, attribuendo loro una doppia vita, doppia morale, doppi obblighi coniugali. Ridendo molto, le mandai pagine di autobiografie e interviste e qualunque possibile prova del fatto che mica erano pettegolezzi: era la tradizione italiana, l’adulterio istituzionalizzato.

Prima perché non avevamo proprio il divorzio, e poi, anche dopo averne avuto la disponibilità legale, perché non si fa, non sta bene, non è buona creanza: mica siamo Donald Trump, noialtri. Noialtre i mariti ce li tenevamo con relazioni doppie, triple, occulte e note a tutti, e senza che neppure fossero Mastroianni o pari figo: gli uomini con cui le nostre madri e le nostre nonne restavano saldamente sposate perlopiù erano ragionieri con la forfora.

La cosa meno americana che abbia fatto Hillary Clinton è stata tenersi un marito che non sapeva tenersi il cazzo nei pantaloni: avrà dei prozii italiani, minimo. Però almeno lei si è tenuta Bill Clinton: se un marito ti mette in imbarazzo, che almeno poi sia un figo, che faccia la storia, che tu abbia una foto con Rabin e Arafat per l’album di famiglia.

Ogni volta che qualche figura italiana collocata a destra si separa, tradisce, viene tradita, va a mignotte, e qualche retore scarso di sinistra beghineggia «e allora la famiglia tradizionale», io mi chiedo in che tradizione siano cresciuti quelli che non riconoscono la tradizione trovandosela di fronte: come si fa a non sapere proprio niente del paese che si ambisce a governare?

«Per quanto celebrati, a volte, e stimati, quegli uomini non valevano un granché. Anzi, capitava sempre il giorno in cui dimostravo d’avere più coglioni di loro. […] Forse il mio tipo di donna è strangolato dal dramma d’esser divenuto, a forza di lacrime, più forte d’un uomo». Sì, a rileggerla ora sembra che Fallaci parli di Giambruno, sembra che Fallaci abbia scritto un monologo per Meloni. Ma non ero andata a cercare queste pagine per questo (è solo che poi la vita è sceneggiatrice).

«Una famiglia può essere composta anche da due omosessuali, cioè due pederasti o due lesbiche. E molti sociologi americani d’oggi accettano questa tesi: che a me sembra un po’ discutibile. Non molto discutibile ma un po’ discutibile».

Nel mondo reale, nessuno parla della famiglia queer. Nessuno mai. È una formula che esiste solo sui giornali e sui social, come il patriarcato o la mascolinità tossica o i pareri perentori su Israele e Palestina o il dualismo tra i film di Scorsese e quelli di fumetti.

Però una settimana fa, prima che il dibattito pubblico venisse monopolizzato da Bellicapelli, stavo ascoltando una tavolata di busoni che spiegava che tutte quelle cose che una volta caratterizzavano la vita degli invertiti, rimorchiare sconosciuti e scoparseli dietro i cespugli senza neanche dirsi come ci si chiama (per chi ha fatto inglese alle medie: cruising), tutta quella modalità lì non esiste più.

Ho detto: chi glielo doveva dire, a Paolo Poli, ad Arbasino, che la frociaggine avrebbe avuto una deriva piccoloborghese in cui ambire al mutuo, ai figli, alla normalizzazione. A questo punto cosa siete froci a fare. Loro hanno preso in considerazione la domanda senza trovare una risposta, e io non pensavo che mi sarebbe poi arrivata dalla sinergia tra l’Oriana e Bellicapelli.

C’è un punto di quegli appunti di cinquant’anni fa in cui Fallaci dice che, quando passa da casa del suo compagno, le viene da rassettare. Era una donna nata quasi cent’anni fa, ed è già estremo e rivoluzionario che scelga di non sposarsi e di non farsi ridurre a massaia quotidiana: sarebbe troppo pretendere che si fosse davvero liberata delle mansioni dell’accudimento.

Mansioni di cui, in quella che i polemisti chiamano «famiglia tradizionale» e io «modo in cui la società ha organizzato la disperazione di gente che se restasse sola con sé stessa si butterebbe dalla finestra», bisogna pure che qualcuno si faccia carico.

Il mestiere di moglie qualcuno deve farlo, pure se siete due uomini, pure se siete un uomo e una donna ma la moglie è lui. Quella che la moglie di Spencer Tracy chiamava «la mole del matrimonio» qualcuno deve sobbarcarsela.

L’uomo si aspetta che anche la donna che ha una carriera più impegnativa della sua si sorbisca i suoi malumori e la sua biancheria sporca, annotava Fallaci cinquant’anni fa, e forse le cose sono un po’ cambiate (con «l’uomo» oggi intendiamo: chi guadagna di più), ma non del tutto.

C’è ancora qualcuno che spignatta, e qualcuno che non sa neanche dove siano le pentole in questa casa. Non ci saranno relazioni paritarie mai, anche perché a caricare la lavatrice si fa prima che a investire energie nell’impegno politico di suddividere tra generi sessuali i compiti domestici.

Le uniche famiglie che hanno risolto lo sbilanciamento dei compiti domestici sono quelle in cui nessun familiare fa niente perché ci si può permettere di stipendiare personale di servizio (e anche lì: ci sarà sempre uno più emotivo, più con tormenti esistenziali, più con deficit di accudimento dei due. Uno più impegnativo d’una lavatrice da caricare. In confronto alla possibilità della parità, lo scioglipancia di Wanna Marchi era razionale).

«Il divorzio rende il matrimonio più forte: autorizza il matrimonio. Se uno si sposa vuol dire che è sposato. E io non voglio essere sposata, tutt’al più divorziata». (A volte non so se Fallaci stia parlando a Meloni o ai detrattori di Meloni, a Pillon o agli oppositori di Pillon).

Quando avevo poco più di trent’anni, chiesi conto a Nora Ephron d’una frase che aveva scritto sul fatto che bisognava scegliersi un marito da cui non sarebbe stato tragico divorziare. Lei si mise paziente a spiegarmi che, se non sei una ragazzina scema condizionata dalla mistica del romanticismo, sai che le storie finiscono, e che è molto importante che finiscano civilmente, e se ciò sia possibile lo capisci subito, quando incontri un potenziale nuovo amore.

(Poiché avevo poco più di trent’anni, non solo mi sembrava scandaloso mettere in conto di lasciarsi, ma inconcepibile farlo senza psicodrammi, senza attaccarsi alle tende, senza catastrofi e minacce e porte sbattute e ripicche d’ogni sorta. Ora so che Ephron aveva ragione: ero il marito che una non dovrebbe prendersi).

«Quando dico infatti che non sono mai stata sposata, avverto come la sensazione di dire una menzogna. Senza l’intervento del prete o del sindaco, lo sono stata e lo sono. In senso morale, affettivo. Poi magari ho divorziato e mi sono risposata».

Lo scriveva Oriana Fallaci prima e dopo aver rivendicato la propria condizione di scapola, che però era una condizione burocratica, che non le sedava l’istinto di raccogliere da terra i calzini di Panagulis, sebbene la razionalità le facesse mantenere una residenza separata che la tutelasse dall’essere una che a tempo pieno raccoglieva calzini.

Lo appoggio qui casomai a Giorgia Meloni servisse una risposta per quelli che «e allora, come la mettiamo con la famiglia tradizionale».

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