Addio a quel tempoIn corretta attesa di diventare, come al cinema

La settima puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «E a me dico: ragazzino resta, fammi lavorare, ridammi quel coraggio»

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«No, perché non so mica se… », questa frase (chiudeva la puntata precedente)… Questa frase è un cagnolino (cagnolina, forse; frase è femmina) con sulla coda puntini puntini neri su bianco… Non pare anche a voi? Non pare anche a voi che si muova? Che la coda si muova? La canina si ferma sul bordo del paragrafo precedente (i cani conoscono i limiti), osserva il bianco della pagina, prolunga la testa chinandola, annusa la pagina bianca che non è latte, solleva la testa a quel solito modo dei cani quando vogliono dare a vedere di non essere osservati (credete forse che siano complessi gli umani?), poi pare che starnutisca, crede forse di aver aspirato farina, si scuote.

Non pare anche a voi che la frase si scuota scompigliando il pelo? Torna indietro, se ne va verso il fondo, la cagnetta coi puntini fra le gambe. Non so se tutto questo è realtà con i piedi per terra o fantasia con fondale. Non so se il tizio lo vedete anche voi. Quello là (mi verrebbe da dire tra le brume ma non so quali brume, forse fumi teatrali), il tipo in posa obliqua, una spalla puntata a un palo d’altri tempi (un palo della luce, di legno, sulla cui cima sosta la cavalcata elettrica dei fili che qui tocca un picco avendo percorso la periferia in saliscendi: gli alti e bassi dei fili; isolanti in porcellana sembrano funghi bianchi di pioppo lassù); il polpaccio della gamba destra che incrocia lo stinco sinistro per fissare la punta della scarpa al suolo, una mano in tasca; l’altra, non ci posso credere, con tra due dita un lungo stelo d’erba che finisce tra le labbra, forse tra i denti del tizio. Tipico. Non ci credo. Ma cos’è?

Iconografia da strapazzo, dozzinale vignetta, sopravvalutato fumetto? È per caso mio zio? Ho avuto uno zio così, proveniente dalla giungla d’asfalto? No, sono io a quel tempo (ma quale tempo, quale?). Sono io che faccio le prove romanzesche: le tirate sulla luce, sullo scrivere di scrivere, le piccole invettive sul leggere. Quello là (ma come si veste?) le ha appena pronunciate ovvero scritte (nella puntata precedente). Sono io? Ma come si veste? Ero io? Come è possibile parlare al passato di un me futuro più grande di me al tempo in cui mi vidi? Ma come si veste? Marroncino rigato, anzi ruggine a righine grigio melma da tubature. Quando tutto è più povero, tutto è più marrone. C’è stato un tempo a cavallo tra il Gruppo ’63, nato in autunno, e la Primavera di Praga, un tempo in cui i ragazzi frequentavano le superiori con la cravatta al collo, ma non è questo il punto. Il punto è che – vestiti così, cravatta, camicia, giacchetta e pantaloni – quei ragazzi erano vestiti tutti da gangster. Scarpe né da tennis né da pallacanestro né le umilianti scarpe ancora da inventare in materiali sintetici somiglianti a motoscafi da altura con le onde e i vortici dell’acqua impressi ai bordi e sulla suola.

No, calzavano, quei ragazzi, scarpe da grandi, scarpe in cuoio, in pelle d’animale o quasi, anzi solo quasi, la famosa similpelle, anzi vilpelle (ma perché ricordo, perché?), coi lacci (i mocassini essendo collegiali e coi calzini bianchi), quel famoso colore, testa di moro, poi quei colori focati, quei fulvi cangianti (e la para per la suola, la malinconica para, selvaggia e brasiliana, felina), e i calzini a rombi colorati, a strisce circolari, ma anche verticali come mazzi di steli colorati nelle scarpe, disegnati a zig zag, a motivi pellerossa, qualche Mondrian e parecchio buonumore; anche antracite e grigi e addirittura neri i calzini ai piedi dei tipi più pericolosi e silenziosi (l’impressione era che affinassero la punta a uno stecco, metodici e lenti, distogliendo raramente occhi biechi e gelidi da quel lavoro). Quei tempi sì che erano tempi. Ora non so se li ho vissuti io o il protagonista. Siamo già ai saluti? Uno deve lasciare il campo all’altro?

Produrrò delle foto se necessario, ma non le foto segrete prese col teleobiettivo o dal camioncino truccato, segnaletiche addirittura, no, non questa paccottiglia ma sì la monumentale foto scolastica, la foto dell’anno, sulle scale e sulle panche dell’istituto, con le professoresse e i professori (foto che mi pare raffigurare sempre la mole del Vittoriano a Roma, visto da piazza Venezia, con le file dei seduti e degli in piedi e gli alti ai lati). Visti così, a riguardarli adesso (osservateli uno per uno), come non riconoscere, guizzante su quei visi, la delinquenza adolescenziale che da posatoio a posatoio salta nella gabbietta mentale (pochi sorridono, anzi nessuno, incredibile, ce ne rendiamo conto adesso, nessuno sorride), quei musi duri tra le guance dolci. Le classi superiori poi furono tutte miste. Cos’è? Non ricordi le ragazze? Una su tutte, sì, ma le ricordo tutte. E, come nella foto, anche allora erano tutte più grandi di me, nella testa, nel corpo, nel cuore, in bellezza, più grandi a quel tempo e anche in questo e sempre ragazze.

Non era difficile essere piccoli delinquenti. Chi non lo era a suo tempo? Nel tempo suo proprio, di proprietà, quell’attimo onnipotente. Qualcuno non lo era, miti ragazzi che la sorte aveva ingaggiato perché i combattivi si allenassero con la loro sagoma da bersaglio facile (la fortitudine ha origini anche vili) così che anche a scuola avrebbero imparato qualcosa. C’è decisione in quei visi spavaldi, non nell’affrontare gli studi ma a prendere di petto la vita, a scuoterla, a darle un nocchiuto colpo sotto il mento o sul naso. Uno si dimentica, diventa prudente, previdente, controllato, perfino saggio (saccente, va’) e consapevole, ma guardati com’eri, ti direi, magari incosciente ma che coraggio su quella faccia da impunito (impunito non perché non sia stato mai punito ma perché esclude la propria colpevolezza sempre e anzi considera colpevole – anche se autorizzato – chiunque creda di poterlo punire). Dimentichiamo. È che dimentichiamo, dobbiamo dimenticare. Ma sì, perché se portassimo con noi quelle sfrontatezze, quelle arroganze, dove andremmo a finire? (Me lo sto chiedendo davvero o faccio finta?).

Sì, magari a finire prima (c’è chi ama i romanzi lunghi, chi quelli brevi, io ancora nemmeno so scrivere infatti uso due avverbi di seguito) ma l’avremmo fatta finita una volta per tutte e in fretta con questo stare al mondo come in corretta attesa di diventare, diventare e basta, diventare generico (come al cinema), così, senza complemento oggetto, perché, sai, quella parola: oggetto. Com’è che già lo sapevamo? Com’è che non ci suonava bene? Cosa? Che per essere corretti e a modo bisogna sforzarsi. Sforzarsi di conformarsi a belle e buone norme, a belle e buone regole della morale e della educazione civica, a essere osservanti delle nozioni informative e didattiche per un corretto agire contenute in un ottimo manuale dell’esistenza, a operare addirittura secondo giustizia (quale?). «Fai uno sforzo», che frase insopportabile. Ecco, tutto questo ci cagliava l’anima ossia il latte alle ginocchia, ci faceva acri e sprezzanti, acerbi di sapore come appunto eravamo, già acerbi se ci pensi, acidi (liberavamo ioni: è la reazione acida, capimmo al volo studiando chimica, ioni di idrogeno, e non so se capimmo bene, comunque li liberavamo, eravamo con gli ioni), ecco perché la foto coglieva canaglie in posa da gangster.

Insomma, gangster, anche allarmanti a riguardarli adesso, quei ragazzi. Che poi cosa significa gangster? Facente parte della ganga, una specie di fanghiglia minerale, un magma, però anche una vena, un fango aureo, un filone: insomma, eravamo pezzi di pane dorato. Quelle cravatte per niente eleganti simboleggiavano un po’ tutto l’avvenire, fatto anche di nodi sciolti e di cravatte tolte (come Byron, tutto un togli e metti, colletti aperti nei ritratti, cravatte in società, ma che bel posatore davvero byroniano: moriva non compiendo Don Juan). Poi, col tempo se ne volano tutti i simboli, che hanno la consistenza delle foglie cedue, del cuore al vento (sepolto o disperso lontano dal corpo). Partecipai a un Preaesidium del Comitato Centrale e vidi intorno ai colli cravatte simili. (Davvero partecipasti a un Preaesidium del Comitato Centrale? Ma quando mai? A che titolo, poi?) Molti di quei ragazzi crescendo saranno ammansiti dal lavoro manuale che bacchetta dita e mani peggio che a scuola quando la bacchetta era in uso; molti altri saranno ammaestrati da cupi o spensierati maestri a fare saltelli intellettuali o circensi; molti li toserà la politica e li farà scampanellare in branco.

Insomma, addio a quel tempo. Quale? Quel tempo in cui mancò poco che riuscissimo a entrare come personaggi in un romanzo, in un film, in un dramma, in una tragedia, anche in un quadro, anche astratto, ma sì anche in una acrobatica istallazione, ma anche in un balletto, perché no, in un poema, in un bel saggio che fa le magie e le capriole, ecco. Diventammo spettatori, invece. Anche tu? (Chi ha parlato?). Io, come al solito, che c’entro? Io sono quello che non c’entra e non sa niente. Sto qui con le pagine davanti, bianche. Sai che significa? Che le devo riempire. Che per sapere le cose devo scriverle. E da quello che scrivo non ne esco più. E a me dico: ragazzino resta, fammi lavorare, ridammi quel coraggio.

(7 Continua)

Questa è la settima puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la sesta. Qui la quinta. Qui la quarta. Qui la terza. Qui la seconda. Qui la prima.

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